Omar aveva soltanto sei mesi quando si è trasferito con i genitori dalla Tunisia a Sutri, in provincia di Viterbo. “Un piccolo paesino, ma per me è un ‘pezzo de’ core’ “, racconta orgoglioso, in dialetto romanesco. Eppure, aspetta da 27 anni di essere riconosciuto dall’Italia. Accanto a lui c’è Sonny, che non ha mai ricevuto una risposta alla sua domanda, ancora senza cittadinanza a 36 anni pur essendo nato e cresciuto a Roma, città dove ha studiato e lavora, come ballerino, scrittore e da alcuni ani attivista e volto della campagna per la cittadinanza. Madhobi Tasaffa invece è arrivata da Dacca, la capitale dal Bangladesh, quando aveva appena un anno e mezzo. “Sei anni di attesa, senza ricevere alcuna comunicazione, poi all’improvviso una mazzata“, lo scorso anno, racconta. “La mia richiesta di cittadinanza è stata respinta“. Il motivo? Colpa di sei mesi di interruzione nel requisito della continuità di residenza. Forse un errore, in realtà, perché lei non si è mai spostata altrove in quel periodo. Ma tanto è bastato per sentirsi esclusa, ancora una volta. Respinta dal Paese che sente suo. E dove presto diventerà madre.

Sono soltanto alcune delle storie di tanti ragazzi e ragazze, figlie e figli di immigrati, giovani di seconda generazione. Un milione di italiani, di fatto, ma senza diritti, che il nostro Paese fa ancora finta di non vedere. “Se si nasce in un Paese che non ti riconosce, si fa fatica, soprattutto se dalle istituzioni percepisci un sentimento di respingimento. Se non ti permettono di abbracciare il tricolore, qualcuno ti porterà ad abbracciare altri valori. E allora mi chiedo perché la politica non si sbriga a far sentire questi ragazzi italiani fin dalla nascita?”, attacca Sonny, che da anni porta avanti la battaglia degli ‘Italiani senza cittadinanza’.

Cinque anni fa c’era anche lui, tra le tribune di Palazzo Madama, quando veniva affossata la riforma dello Ius soli temperato. È da allora che attende un segnale di vita da un Parlamento rimasto immobile a quel fallimento, a un provvedimento prima approvato dalla Camera nel 2015, poi dimenticato, dai governi Renzi e Gentiloni. Sacrificato sull’altare della governabilità e del timore di perdere consensi elettorali, tra referendum e Politiche in arrivo. Scomparso dal calendario dei lavori, fu esposto alla farsa dell’approdo a Palazzo Madama nell’ultima seduta della legislatura, per una discussione nemmeno iniziata per mancanza del numero legale. Ora, però, dopo anni di nulla, tra l’ostracismo di Lega, Fratelli d’Italia e destre e il silenzio di Pd e progressisti, qualcosa sembra muoversi. Perché a Montecitorio è atteso l’inizio della discussione del provvedimento sullo Ius Scholae, proposta di legge presentata dal presidente della Commissione Affari Costituzionali, il deputato M5s Giuseppe Brescia. Permetterebbe a chi nasce in Italia da genitori stranieri, residenti regolari, o a chi arriva entro e non oltre i 12 anni di età, di poter acquisire la cittadinanza dopo aver frequentato un ciclo scolastico quinquennale. O su richiesta dai genitori, o dello stesso minore, entro due anni dal compimento del 18esimo anno di età. Un disegno di legge ora atteso nell’Aula di Montecitorio. Almeno per ora, perché dopo le barricate annunciate da leghisti e meloniani, il provvedimento prima calendarizzato per il 24 giugno, è già slittato di una settimana quasi, al 29 giugno. Data nella quale dovrebbe partire finalmente la discussione generale, per un testo che in commissione ha avuto anche il sostegno di Forza Italia. Domani in Aula, chissà. Perché la legislatura è di nuovo nel suo rettilineo finale, la campagna elettorale già iniziata. E nessuno, tra i partiti, propaganda a parte, sembra crederci davvero. Senza considerare come, tra pausa estiva e futura legge di bilancio da approvare, i tempi saranno ridotti.

Ci sperano lo stesso tanti ragazzi e ragazze, pur temendo di rivedere le stesse scene di cinque anni fa. “Già questo nuovo slittamento è un segnale di come manchi la volontà politica di andare davvero avanti, temo che finirà di nuovo con un nulla di fatto“, non si illude Madhobi Tasaffa. Ma Omar Neffati, portavoce di Italiani senza cittadinanza insiste, questa volta non intende mollare: “Ci spieghino cosa toglie agli altri ampliare un diritto. A Salvini e Meloni dico che siamo come loro, siamo anche noi l’Italia. Ma nessuno faccia più propaganda sulla nostra pelle, da una o dall’altra parte. Servono fatti”, rivendica. “Questa storia già la conosciamo, ma discutere e approvare questo provvedimento sarebbe il minimo. Rischio di un compromesso al ribasso? C’è il pericolo se il dibattito sulla cittadinanza si fermasse qui, invece lo Ius Scholae deve essere il primo passo, per un’alba di nuovi diritti”, concorda Sonny. Certo, precisa, dopo 30 anni di attesa dal ’92, anno di approvazione della legge sulla cittadinanza, “legare questo diritto soltanto a un ciclo scolastico è obiettivamente poco. Ma migliorerà comunque la vita di tanti minori e ragazzi”.

Rinviare ancora una volta sarebbe una beffa, anche perché i numeri del prossimo Parlamento rischiano di essere ancora peggiori per sperare in una riforma. Il percorso però, resta a dir poco complicato: tra centinaia di emendamenti, in gran parte provocazioni o semplici tentativi di rallentare l’iter (come già avvenuto in commissione), e la battaglia annunciata da Lega e FdI, ottenere il via libera dei due rami del Parlamento sembra un’utopia. “Serve un passo in più, bisogna che la legge sia retroattiva. Chi come me ha già frequentato questi cicli scolastici in passato, è per ora in un limbo, in un eterno paradosso”, rilancia Omar. Altrimenti, per tante persone anche un’eventuale approvazione della legge non garantirebbe la possibilità di ottenere la cittadinanza. Proposte di modifica al quale già in commissione hanno lavorato Pd, LeU e Iv, per sanare le situazioni pregresse, allargare la platea, prevedere anche i corsi universitari nel ciclo di studi.

“Oggi sognare ci è impedito. Volevo entrare a far parte dei Carabinieri, ma senza cittadinanza non era possibile. Mi sono sentita umiliata. Ora non vorrei che mio figlio sia costretto a rivivere lo stesso trauma e dover attendere fino a 18 anni, burocrazia permettendo, per poter diventare italiano”, racconta Madhobi Tasaffa. Racconta i suoi diritti negati, ma continua a sorridere. Omar invece ricorda quando, emozionato, portò gli amici fino alla porta del seggio per votare, dove si era dovuto fermare: “Avevo messo tutto me stesso in quella prima campagna elettorale, ma votare non mi era permesso. Ma come fai a essere libero se non puoi partecipare?”. Eppure, si sforza di restare ottimista: “Penso a Ugo Foscolo e alla sua ‘A Zacinto’, quando parlava della sua terra che non poteva più toccare. Ecco, per me l’Italia è come Zacinto, non posso toccarla, solo sfiorarla. Quasi come se fosse un amore non corrisposto. Ma è solo questione di tempo, sono convinto che presto saremo italiani a tutti gli effetti“.

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