Una morsa proseguita per oltre 1.400 giorni che strappò alla vita circa 12mila persone. A 30 anni dall’inizio dell’assedio di Sarajevo questi numeri tornano nella memoria dei suoi abitanti che assistettero inermi alla distruzione delle loro case per mano dei nazionalisti serbi che volevano impedire l’indipendenza della Bosnia-Erzegovina dalla Jugoslavia. Immagini che la guerra in Ucraina ha riportato all’attualità. Ma tra le due situazioni c’è un distinguo che molti sarajevesi e molti bosniaci fanno notare: all’epoca, nonostante l’evidente squilibrio di forze tra aggressori e aggrediti, questi ultimi dovettero resistere con pochissime armi o trovarne attraverso canali alternativi. Con la risoluzione 713, le Nazioni Unite imposero infatti l’embargo su tutte le forniture belliche nel territorio della Jugoslavia. L’obiettivo ufficiale era quello di impedire un allargamento del conflitto. Tuttavia, una simile decisione si ritorse contro gli assediati, che si trovarono a fare i conti con formazioni militari che potevano sfruttare l’arsenale dell’esercito jugoslavo.

Anche se nell’immaginario collettivo la capitale bosniaca è il simbolo della devastazione di quel conflitto, lo stesso destino colpì gran parte della città del Paese. Una di queste fu Bosanska-Krupa, nel nord-ovest. È lì che Emir Sedic, allora poco più che ventenne, coltivava il sogno di diventare un calciatore professionista. La guerra lo colse che aveva ancora indosso la divisa con cui giocava a pallone e non immaginava che avrebbe dovuto sostituirla con un’altra da soldato. “Quando tutto è cominciato siamo letteralmente corsi alla periferia della nostra città in tuta e in jeans per difendere le nostre famiglie, per permettere l’evacuazione di donne, bambini, anziani. A disposizione non avevamo molte armi – ricorda Emir parlando a Ilfattoquotidiano.it – Ci organizzammo da un giorno all’altro per resistere a un nemico che, al contrario, era super equipaggiato”.

Allora non ci fu nemmeno spazio per un dibattitto sulla questione delle armi, perché fin dall’inizio venne messo l’embargo. Durante gli anni del Maresciallo Tito, il vero e proprio esercito era unicamente quello della Jugoslavia. Le sei repubbliche che componevano la Federazione erano dotate di semplici difese territoriali, del tutto insufficienti ad affrontare la guerra che travolse i Balcani nella primavera di 30 anni fa. Furono soprattutto i civili a organizzare la difesa formando delle armate di volontari.

Così, da un giorno all’altro Emir smise di essere calciatore e studente, e divenne capitano della 511° Brigata di Montagna che contribuì alla liberazione della Bosnia nord-occidentale. A Cazin i civili e i soldati costruirono una piccola fabbrica per la produzione di armi locali. Molte di queste, però, non erano che esperimenti. L’embargo imposto dal mondo occidentale costrinse inoltre la Bosnia a cercare aiuto nei Paesi del Medio Oriente, coi quali avviò un commercio d’armi di contrabbando in virtù della comune fede islamica.

“Quello che avvenne a Bosanska Krupa mi ricorda ciò che adesso accade a Mariupol, Kherson e Kiev – afferma Emir – Ci sono molte somiglianze e tuttavia differenze nell’aggressione della Russia contro l’Ucraina e quella della Serbia contro la Bosnia-Erzegovina. In primo luogo, in entrambi i casi la storia e i fatti sono stati distorti. I serbi negarono l’esistenza di un’identità della Bosnia-Erzegovina proprio come ha fatto la Russia con l’Ucraina”. Un’altra similitudine è che “entrambi gli aggressori puntavano a un attacco improvviso e rapido per conquistare la capitale e istituire un governo fantoccio”. Tuttavia, Emir ci tiene a sottolineare anche le differenze: “Gli ucraini hanno ottenuto l’indipendenza dall’Unione Sovietica negli anni ’90 e la crisi vera e propria è iniziata nel 2014, con l’annessione della Crimea e gli attacchi alla regione del Donbass. Hanno avuto più tempo per prepararsi, hanno un loro esercito ufficiale e frontiere aperte con l’Ue. Nel nostro Paese tutto è cominciato in pochi giorni, non c’è stato neppure modo di realizzare quello che stava succedendo. Non avevamo un vero e proprio apparato militare. Ma nonostante questo, la Comunità internazionale non ci ha dato alcun aiuto con le armi, contrariamente a quello che sta invece succedendo adesso con il governo di Kiev”.

Emir è stato ferito molte volte in combattimento, anche in modo grave, ma ha continuato a lottare fino alla fine del conflitto. È stato riconosciuto invalido di guerra al 90%. Oggi lavora come allenatore di calcio e come conduttore nella radio locale di Bosanska Krupa. È anche l’ideatore di “Football No Limits”, progetto che unisce sport e volontariato, portato avanti in collaborazione con l’ong Ipsia. “La mia storia è la stessa di altri bosniaci – conclude – Studenti, camerieri, lavoratori, atleti, contadini, minatori. Si alzarono e si opposero quasi a mani nude all’allora 4° forza militare in Europa”.

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