Venti giorni a Mariupol. Venti giorni fatti di bombe, di connessioni difficili, se non impossibili. Venti giorni di “morti in ospedale, cadaveri nelle strade e di dozzine di corpi spinti in una fossa comune”. L’ultimo video-giornalista rimasto a Mariupol Mstyslav Chernov, insieme con il fotografo Evgeniy Maloletka, ha raccontato in un lungo reportage dell’Associated Press i suoi giorni nella città ucraina assediata dai russi. Dalla partenza verso il porto che affaccia sul Mar d’Azov alla fuga “forzata” dalla città.

I russi ci stavano dando la caccia. Avevano una lista di nomi, inclusi i nostri, e si stavano avvicinando. Eravamo gli unici giornalisti internazionali rimasti nella città ucraina di Mariupol e da più di due settimane ne documentavamo l’assedio da parte delle truppe russe. Stavamo registrando all’interno dell’ospedale quando uomini armati hanno iniziato a perlustrare i corridoi. I chirurghi ci hanno dato dei camici bianchi da indossare per camuffarci. Improvvisamente, all’alba, una dozzina di soldati hanno fatto irruzione: ‘Dove sono i giornalisti, cazzo?'”. Inizia così il racconto di Chernov che spiega anche di aver guardato le fasce indossate dai militari e, nonostante l’ipotesi che fossero russi travestiti, di essersi fatto avanti. I soldati erano lì, nell’ospedale dove il video-giornalista e il fotografo stavano raccogliendo immagini, “per tirarli fuori di lì”. L’ordine era chiaro: portare i giornalisti via da Mariupol.

Lasciare indietro “medici che ci avevano ospitato, donne incinte e persone che dormivano per i corridoi”, scrive il giornalista dell’Ap, lo ha fatto sentire malissimo. Usciti dall’ospedale i militari insieme con i reporter hanno percorso per “nove minuti, forse 10”, comunque “un’eternità” il percorso “attraverso strade e condomini bombardati”. Quindi l’arrivo “in un seminterrato buio” dove video-giornalista e fotografo hanno capito come mai i soldati avessero rischiato la vita per portarli fuori dall’ospedale. “Se ti beccano (i russi ndr.) ti porteranno davanti alla telecamera e ti faranno dire che tutto ciò che hai filmato è una bugia. Tutti i tuoi sforzi e tutto ciò che hai fatto a Mariupol saranno vani“, ha spiegato loro un poliziotto. Gli stessi poliziotti che, pochi giorni prima come si scopre più avanti nel reportage, avevano chiesto loro proprio di raccontare al mondo cosa stesse accadendo a Mariupol.

Chernov ha lasciato la città il 15 marzo. Prima, insieme a Maloletka, ha passato 20 giorni a Mariupol e, per un lungo periodo, è rimasto l’unico giornalista internazionale a raccontare l’assedio della città.

Il suo viaggio, racconta, è cominciato il 23 febbraio. Originario di Kharkiv, Chernov aveva già raccontato guerre in Iraq e in Afghanistan: “Sapevo che le forze russe avrebbero visto la città portuale di Mariupol come un punto strategico per la sua posizione sul Mar d’Azov, così la sera del 23 febbraio sono andato là con il mio collega, Malotelka, fotografo ucraino per The Associated Press, nel suo furgone Volkswagen bianco”. I primi giorni dopo l’invasione, iniziata il 24 febbraio, solo un quarto dei residenti di Mariupol hanno lasciato la città. Gli altri sono rimasti, convinti che “la guerra non fosse in arrivo”. Bomba dopo bomba, si legge nel reportage, “i russi hanno tagliato l’elettricità, l’acqua, le scorte di cibo, e infine, soprattutto, i ricevitori dei telefoni cellulari, delle radio e della televisione”. Senza informazione, scrive Chernov, si raggiungono due obiettivi: “Il primo è il caos, le persone non sanno cosa sta succedendo e vanno nel panico”. Il secondo “è l’impunità“. “Senza informazioni provenienti dalla città, senza immagini degli edifici demoliti e dei bambini in punto di morte, le forze russe potevano fare ciò che volevano”. Per questo, dice, lui e il collega si sono presi questi rischi, per “inviare al mondo ciò che vedevamo”, tanto da finire nel mirino dei russi.

Dead bodies are placed into a mass grave on the outskirts of Mariupol, Ukraine, Wednesday, March 9, 2022, as people cannot bury their dead because of heavy shelling by Russian forces. (AP Photo/Mstyslav Chernov)

Il racconto quindi prosegue con le descrizioni dei bombardamenti. Uno dopo l’altro i bambini sono morti. E “le ambulanze hanno smesso di raccogliere i feriti perché le persone non potevano chiamarle senza segnale” e perché era difficile muoversi “per le strade bombardate”. A volte, racconta, “correvamo fuori per filmare una casa in fiamme e poi tornavamo tra le esplosioni”. I posti dove era possibile connettersi in città, scarseggiavano. “C’era un solo posto, fuori da un negozio di alimentari saccheggiato in Budivel’nykiv Avenue”. Anche lì, però, il segnale internet “è svanito il 3 marzo”. Quindi Chernov e il collega si sono spostati al settimo piano dell’ospedale. Da lì hanno visto “disfarsi gli ultimi brandelli di Mariupol”.

“Per diversi giorni, l’unico collegamento che abbiamo avuto con il mondo esterno è stato tramite un telefono satellitare”, si legge ancora nel reportage. A quel punto, scrive ancora, “avevo assistito a morti in ospedale, cadaveri nelle strade e dozzine di corpi spinti in una fossa comune”.

Il video-giornalista e il fotografo erano lì anche quando è stato colpito l’ospedale materno-pediatrico. “Quando siamo arrivati i soccorritori stavano ancora tirando fuori dalle rovine donne incinte insanguinate”. Erano senza batterie e senza collegamento internet. È stato allora che hanno conosciuto un agente di polizia che li ha portati a una fonte di alimentazione e ha provveduto alla connessione internet: “Questo cambierà il corso della guerra”. E così, in effetti, è stato per l’attacco all’ospedale. Per mandare tutti i file, foto e video, “ci sono volute ore, ben oltre il coprifuoco”. “I bombardamenti sono continuati, ma gli ufficiali incaricati di scortarci attraverso la città hanno aspettato pazientemente”.

Poi Chernov e Maloletka sono tornati in un seminterrato, senza connessione. Non sapevano che fuori, intanto, le loro foto erano state spacciate per false dai canali di informazione russi. Intanto a Mariupol “non funzionava alcun segnale radiofonico o televisivo ucraino”. Solo una radio filorussa che diffondeva un unico messaggio “Mariupol è circondata, consegna le tue armi”.

L’11 marzo, tre giorni prima di lasciare la città, “l’editore ci ha chiesto di trovare le donne sopravvissute all’attacco all’ospedale materno-pediatrico, per dimostrare la loro esistenza”. Così i due hanno ritrovato in un altro ospedale le donne che avevano fotografato, i cui scatti hanno fatto il giro del mondo. “Siamo saliti al settimo piano per inviare il video e da lì ho visto un carro armato dopo l’altro avvicinarsi all’ospedale. Avevano la lettera Z diventata emblema russo della guerra. Eravamo circondati, decine di medici, centinaia di pazienti e noi”.

Solo allora, dopo ore passate nell’oscurità, sono arrivati i soldati ucraini che li hanno portati via. “Non sembrava un salvataggio”, scrive Chernov che ammette di essersi “vergognato” per essere partito. Anche il racconto del viaggio per lasciare Mariupol è dettagliato. I due dell’Associated Press hanno dovuto attraversare quindici posti di blocco russi. Con loro in auto anche una famiglia di tre persone. “A ogni posto di blocco – scrive ancora Chernov – la madre seduta davanti pregava furiosamente”. Solo allora ha capito che l’esercito ucraino non sarebbe entrato a Mariupol, dovendo affrontare così tanti posti di blocco equipaggiati con “soldati e armi pesanti”.

“Mentre ci fermavamo al sedicesimo posto di blocco, abbiamo sentito delle voci. Voci ucraine. Ho provato un enorme sollievo. La madre davanti all’auto è scoppiata a piangere. Eravamo fuori”, dice ancora Chernov. Lui e Maloletka erano gli ultimi giornalisti a Mariupol. “Ora non ce ne sono più”.

Lui, conclude, avrebbe saputo come raccontare sia l’attacco aereo al teatro di Mariupol, dove si erano rifugiate centinaia di persone, sia il bombardamento alla scuola d’arte della città. “Ma ora non possiamo più arrivarci”.

Foto – AP Photo/Evgeniy Maloletka

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