Dopo otto anni di inflazione inesistente, o quasi, ci siamo forse dimenticati di quanto il caro vita possa mordere stipendi, pensioni e risparmi. E soprattutto spazzare via quel piccolo rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori nei confronti delle aziende a cui si è assistito negli ultimi tempi. I rincari delle bollette energetiche che scattano l’1 ottobre (+30% per la luce e +14% per il gas nel trimestre) sono ad esempio più che sufficienti per azzerare i benefici del rinnovo del contratto dei metalmeccanici. A fronte di un aumento medio in busta paga di 112 euro, luce e gas si succhiano circa 300 euro in più di un anno fa, quando i prezzi erano particolarmente bassi per la discesa delle quotazioni di petrolio e gas dovuta alla pandemia. Nel caso degli aumenti ottenuti dai lavoratori della logistica di Amazon dopo scioperi e mobilitazioni – circa 75 netti di euro al mese – il solo effetto bollette ne dimezzano i benefici effettivi.

Non è un problema solo in Italia, dove a settembre si sono registrati i livelli più alti dal 2012. In Germania, dove l’inflazione ha raggiunto il 4,1%, ossia il livello più alto da 29 anni, si moltiplicano le richieste di aumenti salariali, supportate da scioperi che si stando verificando in diversi settori. Negli Stati Uniti l’inflazione è oggi al 5,3%, il valore più alto degli ultimi 13 anni, e il fenomeno è altrettanto accentuato. Rispetto ad un anno fa gli stipendi sono nominalmente cresciuti molto ma, se si tiene conto del contemporaneo incremento dei prezzi, sono diminuiti. Nella ristorazione, ad esempio, le buste paga si sono gonfiate del 4,8% rispetto all’agosto di un anno fa. Ma di fatto valgono lo 0,5% in meno. La segretaria al Tesoro Janet Yellen ha affermato che alla fine di quest’anno l’inflazione americana sarà più vicina al 4% che al target del 2%, valore considerato “ottimale” per la crescita economica. “L’inflazione è elevata e resterà alta per mesi prima di calare” ha rincarato il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell aggiungendo “se necessario, la Fed agirà per contrastare l’incremento dei prezzi al consumo”

La Banca centrale europea ostenta invece maggiore sicurezza, sebbene il mese scorso l’inflazione dell’area euro sia salita dal 3 al 3,4%. “Una volta che saranno passati gli effetti indotti dalla pandemia, ci aspettiamo che l’inflazione scenda” e “guardando oltre la pandemia, ci aspettiamo che l’inflazione si avvicini lentamente” all’obiettivo del 2%. Neanche le aspettative puntano verso rischi di un superamento prolungato” del 2%. Le aspettative di mercato di lungo termine sono salite di circa 50 punti base da inizio anno a circa l’1,75%, e le misurazioni basate su indagini sono salite leggermente all’1,8%”, ha affermato ieri la presidente Christine Lagarde. Sfiziosa nota a margine: poche ore prima che Lagarde parlasse l’economista della Fed Jeremy Rudd ha pubblicato un materiale di studio e confronto in cui argomenta la totale inattendibilità delle “aspettative sull’inflazione”. Curiosa la nota numero 2 al testo: “Lascio qui da parte la profonda preoccupazione che il ruolo principale della teoria economia tradizionale nella nostra società sia quello di fornire un supporto ideologico per un ordine sociale criminalmente oppressivo, insostenibile e ingiusto

Ci sono motivi ragionevoli per attendersi e sperare che l’inflazione si calmi nei prossimi mesi. I rincari di questo periodo sono legati alla corsa delle materie prime più che ad aumenti salariali o abbondanza di moneta. Nell’ultimo anno il prezzo del gas è triplicato, quello del petrolio raddoppiato. Le economie stanno riequilibrando il loro mix di fonti energetiche in un’ottica di maggiore sostenibilità e dopo il crollo durante la pandemia la domanda di energia ha ripreso velocemente a salire. In prospettiva è però vero che il “superciclo” delle materie prime che negli ultimi 20 anni ha sostenuto le quotazioni di minerali, metalli, gas, carbone e petrolio è agli sgoccioli. Il motore alla basa di tutto è stata infatti la grande corsa cinese per innalzare l’economia del paese su livelli occidentali. Ma ormai si è costruito tutto quello che si doveva costruire (e anche di più).

Certo è che l’inflazione è spesso un fenomeno “perfido” poiché a fronte dell’illusione di un aumento delle retribuzione in realtà, di fatto, le riduce. Una dinamica che solitamente si accanisce sui redditi più bassi poiché le spese per benzina, energia e alimentari (le componenti più soggette a oscillazione dei prezzi) incidono in proporzione maggiore sulla spesa mensile. Il 10% della popolazione con gli stipendi più bassa dedica a queste voci il 21% dei suoi redditi, il 10% con gli stipendi più alti appena il 9,5%.

In Italia vige una blanda indicizzazione di pensioni e salari all’aumento dei prezzi. Il riferimento che si utilizza nei rinnovi contrattuali è infatti quello dell’inflazione programmata che viene fissato annualmente dal ministero del Tesoro. L’indicatore, che esclude dal calcolo le variazioni dei prezzi dell’energia, i più soggetti a oscillazioni, è regolarmente più bassa di quello reale. Il tasso di inflazione programmata per il 2021 è ad esempio dello 0,5% a fronte di un dato acquisito per l’intero anno che nelle rilevazioni di agosto era all’1,8% e allo 0,9% per la sola componente di fondo (senza energia e alimentari). Nella discrepanza tra inflazione programmata e reale si giocano gran parte delle lunghe contrattazioni tra sindacati e organizzazioni delle imprese. L’intenzione alla base dell’uso di questo sistema è quella di scongiurare rincorse tra prezzi e salari come invece accadeva con il meccanismo della “scala mobile”, con incrementi automatici in busta paga, rimasto in vigore fino al 1993.

Quando le retribuzioni aumentano più della produttività del lavoro (ossia il valore delle merci che un dipendente riesce a produrre, valore che dipende molto di più dagli investimenti e dagli strumenti che un’azienda mette a disposizione dei suoi addetti che dalla buona volontà o abnegazione di questi ultimi) si generano infatti pressioni al rialzo sui prezzi. Ma se il sistema di indicizzazione attualmente in uso è tollerabile finché l’inflazione si colloca entro valori contenuti, mostra invece la corda la corda se gli incrementi dei prezzi sono sostenuti e durano a lungo. La Confindustria di Carlo Bonomi si è impuntata sulla disponibilità a parlare di aumenti delle retribuzioni solo se giustificati dall’inflazione. Vedremo quale sarà la risposta dell’associazione degli industriali in occasione dei prossimi rinnovi contrattuali.

Nel frattempo Mario Draghi ha tolto dal tavolo il dossier salario minimo, misura già presente in molti paesi europei e che fissa una soglia per le retribuzioni, fatte salve le contrattazioni tra imprese e sindacati per interventi migliorativi. Un provvedimento che avrebbe potuto fornire un supporto alle categorie di occupati economicamente più deboli. Per fare un esempio nel commercio i minimi retributivi fissati nel contratto collettivo sono di circa 4 euro l’ora, meno di 800 euro al mese.

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