Sarebbe bastata una distrazione degli agenti della Guardia di Finanza e la storia d’Italia sarebbe cambiata: i nomi degli iscritti alla Loggia P2 avremmo potuto non conoscerli mai. Invece non ci fu nessuna distrazione. Qui di seguito potete leggere un estratto del memoriale di Francesco Carluccio, allora maresciallo maggiore che coordinò l’intervento alla Giole di Castiglion Fibocchi, il 17 marzo 1981, su mandato della Procura della Repubblica di Milano che indagava sul caso Sindona. Il memoriale è stato scritto per il libro L’Italia Occulta (Chiarelettere), scritto Giuliano Turone, il magistrato oggi in pensione che conduceva l’indagine insieme al collega Gherardo Colombo, poi fra gli artefici di “Mani pulite”. Italia occulta uscirà in una nuova edizione aggiornata il 25 marzo.

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Il 14 marzo del 1981 (sabato) fui convocato nell’ufficio del comandante del nucleo, presente anche il maggiore Lombardo. Nell’atrio vi erano alcuni ufficiali. Fummo ricevuti uno alla volta. Il colonnello Bianchi mi informò che il lunedì successivo mi sarei dovuto recare ad Arezzo per eseguire un’operazione di polizia giudiziaria, senza specificare né il luogo né i soggetti nei confronti dei quali si dovesse agire: le disposizioni erano contenute in una busta chiusa che mi fu consegnata (non ricordo bene se in quella circostanza o il lunedì mattina prima di partire per Arezzo) con l’ordine di aprirla nella prima mattinata del 17 marzo. “Non fate telefonate, salvo che per stretti motivi di servizio”, mi fu raccomandato.(…)

Mi misero a disposizione una Fiat Ritmo guidata dal finanziere Luigi Voto. Partimmo per Arezzo nel primo pomeriggio del 16 marzo e alloggiammo all’hotel Intercontinental. Ritornando alle cautele di riservatezza con cui i miei superiori istruivano i capipattuglia, appena mi dissero che sarei dovuto andare ad Arezzo capii che l’operazione era da farsi nei confronti di Licio Gelli, questo perché io ero impiegato, fin dal 1974, nelle indagini per l’insolvenza della Banca privata italiana da cui erano scaturite tutte le vicende giudiziarie che riguardavano Michele Sindona. (…) «Nessun altro dei colleghi aveva cognizione del perché andassimo ad Arezzo e, soprattutto, di chi fosse Licio Gelli. (…) L’obiettivo sarebbe stato quello di trovare prove di contatti tra Sindona e Gelli, specie per il periodo 1978-1980, quando Sindona risultava essere “sparito”.

Il servizio si sviluppò nel seguente modo. Ero convinto che Licio Gelli fosse l’amministratore unico della Giole per cui, una volta entrati nell’androne dello stabilimento relativo agli uffici, chiesi subito al portiere di accompagnarmi nell’ufficio dell’amministratore, Licio Gelli. Egli mi rispose che il soggetto non rivestiva nessuna carica nella società, non aggiungendo altro. «Ci fu un attimo di smarrimento (…). Chiesi lo stesso di essere accompagnato nell’ufficio di Gelli. Il portiere mi indicò una donna che scendeva dalla scalinata del piano superiore dicendomi che era la segretaria del commendatore. La chiamò per presentarcela. La signora disse di chiamarsi Carla Venturi, che era la segretaria di Licio Gelli e precisò che l’amministratore delegato della Giole era il signor Attilio Lebole. Lei era, comunque, a libro paga della società. (…)

Salimmo la scalinata e la Venturi ci introdusse in un locale di normale ampiezza dicendo che era l’unico a uso di Gelli, non ve ne erano altri né presso la Giole né altrove da lei conosciuti. Specificava che la sua attività di collaboratrice veniva esercitata in detto ufficio. (…) Preliminarmente la Venturi era stata invitata a indicare se il locale fosse munito di cassaforte. Rispondendo positivamente e indicandola precisava di non essere in possesso della chiave. Premetto che al momento in cui eravamo entrati nell’ufficio, la Venturi aveva appoggiato la sua borsa su una sedia. Mi riservavo di perquisirla durante l’operazione di polizia giudiziaria. Dissi, però, al maresciallo De Santis di tenerla d’occhio e se la signora si fosse allontanata prendendo la borsa stessa, di seguirla e, nel caso si fosse recata in posti dove non potesse essere sorvegliata (esempio alla toilette), di bloccarla immediatamente e verificare il contenuto della borsa.

Nel corso del servizio era stata aperta una grossa valigia posta vicino alla scrivania di Gelli. Conteneva varia documentazione e varie buste sigillate con scotch e firmate agli estremi della chiusura. Erano intestate in relazione al loro contenuto (per esempio: “Patto tra … e …”, “Accordo …”, “Gruppo …”). Una vampata di emozione mi assalì quando su alcune buste lessi riferimenti al Gruppo Rizzoli, a Tassan Din (direttore della Rizzoli), a Rizzoli/Calvi, a Rizzoli/Caracciolo/Scalfari, insomma il gotha dell’informazione in Italia. (…)

Presi all’istante la decisione di sequestrare tutto. Solo i successivi sviluppi del servizio mi avrebbero liberato da una responsabilità così pesante. (…)

A questo punto, la signora Venturi chiedeva di potersi recare nell’atrio per incontrare una persona per motivi di lavoro. Prese la borsa e uscì. Opportunamente sospendemmo la perquisizione e uscimmo dall’ufficio insieme a lei per poi continuare al suo ritorno. La segretaria aveva già chiesto prima una o due volte di uscire per telefonare o andare in bagno senza prendere la borsa. Invitata da me a usare il telefono dell’ufficio rispondeva che era quello del commendatore, doveva essere tenuto sempre libero e preferiva non usarlo. Sta di fatto che questa volta la borsa era in suo possesso e De Santis si attivò. La seguì nell’atrio dove la vide parlare con un signore al quale cercò di passar qualcosa preso dalla borsa. Il maresciallo, della cui presenza lei non si era accorta, la bloccò subito e l’oggetto che stava consegnando passò direttamente nelle sue mani. Erano le chiavi della cassaforte. Eccitato, il militare invitò i due nell’ufficio di Gelli, che riaprimmo appena arrivarono.

Il signore fu identificato (risultò essere il direttore di una vicina banca), fu da me redarguito e lasciato andare in quanto si era giustificato dicendo di non essere a conoscenza del perché la signora Venturi avesse voluto incontrarlo e di non sapere che cosa gli volesse consegnare. Telefonai al maggiore Lombardo per aggiornarlo sul ritrovamento della chiave della cassaforte accennandogli che probabilment c’era da sequestrare della documentazione. Mi rassicurò dicendomi più o meno: “Vedi tu, sai quello che devi fare e stai tranquillo”.

Aprimmo la cassaforte. Altre buste sigillate, alcune ancora con riferimenti al Gruppo Rizzoli. Conteneva, fra l’altro, una specie di registro su cui erano annotati i nominativi degli iscritti alla loggia P2 e un certo numero di cartelle settoriali intestate (finanza, carabinieri, polizia, banchieri eccetera) con i relativi nomi e cognomi. È chiaro che la mia attenzione fu subito rivolta alla cartella “Finanza” che conteneva molti nominativi di alti ufficiali. Constatai con sollievo che né il colonnello Bianchi né il maggiore Lombardo ne facevano parte. C’erano invece, tra gli altri, i nomi del comandante generale della guardia di finanza, generale di corpo d’armata Orazio Giannini, e quello del capo di stato maggiore, che mi sembra fosse il generale Donato Lo Prete. Rimasi impressionato. Anche nelle altre cartelle erano evidenziati i vertici delle rispettive amministrazioni o settori di appartenenza e incominciai a preoccuparmi. Non avevo mai immaginato un tale concentramento di poteri.

(…) (La signora Venturi) rimase scossa e replicò più o meno così: “Non potete portare fuori da qui questa documentazione, sono preoccupata per come il commendatore la prenderà. Le dico che è un uomo potente, stia attento a quello che fa”. Erano parole senza astio, più di consiglio che di avvertimento o di minaccia. Le risposi semplicemente che io ero ben tutelato per la fiducia che avevo nei miei superiori diretti e, soprattutto, nei magistrati titolari del procedimento, “altrimenti, Dio ci aiuti”. (…)

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