Un rapporto Ipbes — la massima autorità scientifica in tema di natura e biodiversità — pubblicato qualche mese fa, ha ipotizzato l’esistenza di circa 1,7 milioni di virus zoonotici ancora sconosciuti alla comunità scientifica. Di questi, 800mila potrebbero avere la capacità di infettare l’essere umano.

Il Sars-Cov-2 è infatti uno tra i tanti virus che ci sono stati trasmessi dagli animali e non è neanche uno dei più letali. Oltretutto, come ci ha insegnato l’attuale pandemia, non esiste continente che può considerarsi al riparo dalla diffusione dei virus: questi infatti non conoscono confini e a volte neanche ostacoli di specie. Quelli che più ci preoccupano infatti, sono quelli capaci del cosiddetto spillover, il salto di specie, che può colpire l’essere umano e trasmettersi da un individuo a un altro con facilità.

Da molti anni esperti in tutto il mondo ci avvertono della possibilità che i virus — alcuni di questi già in circolazione tra gli animali negli allevamenti intensivi e persino endogeni in alcune zone del mondo — possano sviluppare la capacità di trasmettersi facilmente tra gli esseri umani. Quando in passato questo è accaduto, come nel caso della pandemia di influenza suina avvenuta tra il 2009 e il 2010, la capacità dei governi di contenere i contagi non si è dimostrata sufficiente e i morti sono stati migliaia.

L’influenza aviaria

Tra l’autunno e l’inverno del 2020 l’influenza aviaria si è espansa in Asia e in Europa: casi sono stati registrati in Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Paesi Bassi, Svezia, Regno Unito, Giappone e India. Dall’inizio di quest’anno, la Francia ha ordinato l’abbattimento di oltre un milione di esemplari di pollame, soprattutto anatre, per cercare di contenere il virus.

Nonostante le infezioni da H5N1 nell’uomo siano, almeno finora, piuttosto rare, ciò che rende questo virus molto pericoloso è il tasso di letalità tra gli esseri umani che tocca il 60%. Dal 2003, l’influenza aviaria ha ucciso almeno qualche centinaio di persone. Tuttavia, se il virus sviluppasse la capacità di trasmettersi in maniera efficiente da umano a umano, come ad esempio il coronavirus, le conseguenze sarebbero devastanti: il Covid-19 ha un tasso di letalità di circa il 2% in Italia, niente a confronto del 60% dell’H5N1.

Peste suina africana

La peste suina africana (PSA) è una malattia virale altamente contagiosa e letale che colpisce suini e cinghiali: nel 2019 ha decimato la popolazione suina cinese, dove sono stati persi 200 milioni di animali, tra quelli morti per la malattia, abbattuti preventivamente o macellati prima del tempo.

In questo momento la Germania è uno dei Paesi europei maggiormente colpiti. Come riporta il Guardian. In Italia il virus è presente dal 1978, ma solo in Sardegna. A gennaio di quest’anno, un decreto interministeriale del Ministero delle politiche agricole e del Ministero della salute ha definito un piano di intervento a livello regionale e nazionale per ridurre il rischio di contagio in Italia.

La peste suina africana non è al momento trasmissibile all’uomo, ciononostante gli effetti sui suini sono distruttivi. Ad oggi non esiste un vaccino e per questo motivo un’epidemia comporterebbe la morte di un numero enorme di individui, come già successo in Cina due anni fa.

Una potenziale malattia zoonotica in Olanda

È di qualche giorno fa la notizia che in Olanda potrebbe essere emersa una nuova malattia zoonotica che colpisce l’uomo. Nel 2008 si è verificata un’epidemia di febbre Q tra le capre, migliaia di persone sono state infettate e 95 sono morte. Oggi, dopo oltre dieci anni, casi preoccupanti di polmonite sono stati collegati alla presenza delle capre. Le persone che vivono vicino agli allevamenti hanno infatti tra il 20 e il 55% di probabilità in più di sviluppare una polmonite.

Il programma di vaccinazione degli animali dopo l’epidemia di febbre Q e gli abbattimenti preventivi spingono gli esperti a pensare che gli attuali casi di polmonite possano risalire a una nuova malattia zoonotica capace di trasmettersi all’uomo.

La soluzione è la chiusura degli allevamenti

L’abbattimento — preventivo o meno — di milioni di animali a causa di virus emergenti sempre più pericolosi non può essere una soluzione. Questi animali, che non nascono “naturalmente”, ma tramite inseminazione artificiale, vengono allevati in condizioni in cui la diffusione di una zoonosi è semplicemente inevitabile. E più gli allevamenti intensivi si ingrandiscono, più aumentano le probabilità che un nuovo spillover si verifichi.

In un report pubblicato il 6 luglio scorso, le Nazioni Unite hanno inserito l’allevamento intensivo tra i fattori di rischio che provocano l’insorgenza di pandemie. Gli autori dello studio avvertono che altre epidemie continueranno ad emergere, a meno che i governi non prendano attivamente misure che impediscano che altre malattie zoonotiche si diffondano tra la popolazione umana. Il coronavirus, l’aviaria H7N9 e H5N1, l’influenza suina H1N1 e la febbre Q appartengono a una lunga serie di malattie zoonotiche che proliferano negli allevamenti intensivi perché sono questi luoghi a permettere che si sviluppino e si diffondano.

È ora che chi ha potere di prendere decisioni, come ad esempio il Parlamento Europeo, decida di mettere la salute dei cittadini e degli animali in cima alla lista, prima del profitto di pochi “signori del cibo”, come li definisce il giornalista Stefano Liberti. I segnali sono chiari e ignorarli è un rischio che non possiamo permetterci: dobbiamo cambiare prima che sia troppo tardi.

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