di Mattia Zàccaro Garau

È vero che l’etimologia di ‘maschera’ ci rimanda a qualcosa di terribile: masca, in un tardo latino, stava per strega, per nero fantasma, per ciò che copre il volto, che nasconde le vere intenzioni. Addirittura anche le nuvole scure che minacciavano tempesta coprendo l’azzurro sereno del cielo erano delle maschere. Ma le parole, che sono sì dei segni, sono anche dei simboli. E il simbolo, per sua stessa definizione, balla sempre da un senso ad un altro. E chi lo fa ballare siamo noi.

Ad oggi la mascherina è tornata obbligatoria ovunque ci possa essere scambio tra persone non congiunte. All’aperto, al chiuso, non fa più differenza. I dispositivi di protezione sono di nuovo un fatto di legge, anzi un fatto di dpcm. Non è ancora chiaro a tutti che la mascherina forse non ci protegge dal subire un contagio, ma ci evita di contagiare gli altri. E che quindi solo il suo uso massiccio può darle contezza pratica, valore sanitario nella lotta al Covid-19. Insomma: è uno strumento di civicità, oltre che di civiltà. Non la si mette tanto per se stessi, la si mette per gli altri. Sperando che gli altri la mettano per noi. Un atto di fiducia, un dono sospeso. In questo senso, la mascherina è un simbolo forte; forse l’unica meta-narrazione capace di riemergere nella liquidità post-moderna, per dirla un po’ alla Lyotard e un po’ alla Bauman.

Ma andiamo per gradi. Se siamo dovuti arrivare nuovamente all’azione obbligante di una legge, invece di permanere nell’azione responsabilizzante di una norma, significa che qualcosa è andato storto. Soprattutto non è stato del tutto comunicato il senso profondo della pandemia, che va al di là della litania pomeridiana di positivi e morti. Quello è il campo dove si scontrano ottimisti e pessimisti a colpi di percentuali. Questo, invece, è il campo del reale. Non si tratta di statistica, si tratta di esistenza.

La mascherina dovrebbe essere un fatto di norma, una buona norma. In una società che si rispetti (nel doppio senso di essere rispettabile e di rispettare se stessa) non ci sarebbe bisogno di mutarla in legge. La norma, di fatti, è la regola aurea che una società si dà in forme non autocratiche ma responsoriali, verso un fine più alto. In questo caso il fine più alto corrisponde con l’Altro, con la salute dell’altro, in un circolo che si vorrebbe virtuoso. La legge trasforma la norma in obbligo, non lascia più la possibilità di scelta. Si passa da uno stato di dovere interiore a uno stato obbligazionale esteriore, proveniente dalla struttura di potere.

Da qui il pullulare di rare e rumorose voci che lamentano privazione di libertà causa mascherina. Manifestazioni che hanno il solo effetto di montare polemica e di creare un’atmosfera di serpeggiante scherno e diffusa diffidenza universali. Così tutti hanno un po’ torto, sia chi decide sia chi protesta; e tutti diventano meme, senza distinzioni. La mascherina la mettiamo a coprire solo la bocca, a naso scoperto – una via di mezzo tanto italiana quanto inutile.

Succede questo, di solito, quando le buone norme diventano leggi forti. Smettono di essere prese sul serio perché scadono da simbolo a segno. È un circolo vizioso che non tiene conto dell’indole insubordinante che risiede in noi. Ed è proprio in questi casi che va esaltato il valore simbolico della mascherina. A maggior ragione ora che come cittadinanza non ci pacifichiamo nella norma, ma abbiamo bisogno di una legge, e della prospettiva di una punizione. Perché se il segno legislativo della mascherina ci rimanda alla pandemia planetaria, il simbolo normativo della mascherina ci rimanda al senso di responsabilità verso i comuni mortali.

La mascherina, insieme al suo valore sanitario, ci dice che siamo in un momento particolare, dentro un’emergenza. Senza, penseremmo di avere il problema ormai alle spalle. Proprio questo è il suo valore più importante: è la via per trasformare il memento mori in memento vivere. La mascherina è il luogo in cui la salute individuale coincide con la salute collettiva.

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