“Poco fa sono stata fermata da un poliziotto, ha voluto vedere i miei documenti, ha fatto delle domande, poi mi ha lasciato andare, però continua a seguirmi”. Sono queste le ultime parole scambiate al telefono tra Basma Mostafa, giornalista egiziana di 30 anni e suo marito, Karim Abdelrady, avvocato, sabato mattina. Erano circa le 11,30, da quel momento, e fino a domenica pomeriggio, di lei si sono perse le tracce, svanita nel nulla.

Come spesso accade in Egitto, la National Security ha fermato, prelevato, tenuto nascosta e portato la reporter davanti al Procuratore del Cairo per la convalida dell’arresto con le accuse di unione ad un gruppo terroristico e pubblicazione di notizie false (caso 959 del 2020) e l’annuncio del primo rinnovo della detenzione, fissato per i canonici 15 giorni. Un copia/incolla di quanto accaduto a Patrick Zaki all’inizio del febbraio scorso e a centinaia di egiziani indigesti al regime.

La Mostafa si trovava a Luxor, la capitale dei faraoni, per un reportage giornalistico. Nell’ultima settimana la città lungo il Nilo, 700km a sud del Cairo, è stata teatro di una vera e propria sommossa legata alle proteste post-20 settembre che hanno costretto la Sicurezza Nazionale egiziana a un vigoroso dispiegamento di forze per riprendere il controllo e sedare i focolai di rivolta. Un episodio, su tutti, ha suscitato scalpore: l’uccisione a sangue freddo di un uomo che aveva tentato di difendere suo padre aggredito in casa durante un blitz della polizia.

Per questo e per tutto il resto, Basma aveva deciso di scendere a Luxor ed effettuare un reportage per conto del sito web di notizie Almanassa News. Una giornalista in prima linea, Basma Mostafa, fondamentale in passato per smascherare il più grande depistaggio costruito dalle autorità egiziane per allontanare i sospetti attorno al rapimento, alla detenzione, alle torture e al barbaro assassinio di Giulio Regeni, tra il 25 gennaio ed il 3 febbraio del 2016. Il regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi, dopo aver tentato di derubricare l’omicidio di Regeni con una serie di panzane colossali (un incidente stradale, un regolamento di conti in ambito sentimentale ecc.), aveva bisogno di una ricostruzione credibile per discolparsi del crimine nei confronti di un cittadino italiano ed europeo. Per questo organizzò un’incredibile montatura, piazzando i documenti di Giulio Regeni nell’appartamento di una famiglia del Cairo, considerata una banda di criminali senza scrupoli e organizzando un falso scontro a fuoco: un’autentica carneficina, 5 morti, tra cui un giovane tassista, anch’egli completamente estraneo ai fatti. Era il 26 marzo del 2016. Pochi giorni dopo fu proprio lei l’autrice dello scoop e a raccontare la tragica messinscena, ridando almeno dignità a 5 innocenti, familiari compresi, e mettendo le autorità egiziane con le spalle al muro.

Da quell’episodio le indagini, seppur con tutti i limiti dimostrati nel tempo, partirono davvero indirizzandosi sui servizi segreti egiziani. Con quello scoop per Basma Mostafa iniziò anche un lungo e travagliato rapporto con le autorità. Arrestata con l’accusa, tanto per cambiare, di aver diffuso false notizie, si leggeva nel capo d’imputazione, a proposito dell’intervista ai familiari delle vittime innocenti. Negli anni successivi, una volta rimessa in libertà, i problemi sono continuati. All’inizio dell’emergenza pandemica coronavirus, Mostafa è stata prelevata in strada dalla polizia a Downtown Cairo, nel cuore della capitale, mentre stava intervistando delle persone che protestavano davanti al ministero della Sanità. Interrogata per alcune ore nel commissariato di zona, la giornalista è stata rilasciata in serata.

In Italia i giornalisti con la schiena dritta rischiano la vita per smascherare il malaffare e subiscono le minacce della criminalità organizzata, in Egitto lo Stato non solo evita qualsiasi tutela, ma anzi punisce cronisti, blogger e tanti altri cittadini solo perché raccontano la realtà di un Paese iniquo. Le carceri egiziane sono state e sono piene di giornalisti arrestati, per la quasi totalità dei casi, con la sola colpa di svolgere il proprio dovere. Stando al Committee to protect journalists (Cpj), un’organizzazione con sede negli Stati Uniti, i rappresentanti dei media egiziani antiregime rinchiusi nelle prigioni del Paese nordafricano sono attualmente 26. Tra i casi più eclatanti quello di Khaled Dawoud, arrestato alla fine di settembre 2019 nell’ondata repressiva messa in atto dal governo egiziano dopo le proteste di piazza esplose in tutto il Paese e fomentate dall’imprenditore/attore Mohamed Alì. Dawoud, noto giornalista ed ex leader del Partito al-Dustour, è ancora recluso nel carcere di Tora.

Il 20 maggio scorso, ad Alessandria d’Egitto, è toccato alla giovane reporter ed attivista dei diritti umani Shaymaa Sami, arrestata per aver diffuso e pubblicato false notizie, anche attraverso i social, ma soprattutto per aver preso parte ad un gruppo terroristico. Con lei nello stesso periodo sono finiti in manette altri colleghi, Sameh Hanin, Haitam Mahgoub, il fotografo Moatez Abdel Wahab, Mostafa al-Aasar. Ci sono poi altri professionisti molto conosciuti in Egitto come Esraa Abdel Fattah, Solafa Magdy e Mohamed Salah anch’essi in prigione.

Poche settimane fa è toccato ad un altro giovane cronista, Islam Kahly, finire in prigione mentre stava lavorando. Kahly stava raccogliendo notizie sulla morte sospetta di un giovane commerciante nel Governatorato di Giza fermato dalla polizia, portato in caserma e poi ritrovato cadavere in strada. Infine il caso Mada Masr, il sito di notizie antiregime per eccellenza, oscurato dal governo, ma in grado di dribblare la censura. La sua tenace direttrice, Lina Attalah, pochi giorni fa è stata inserita nella lista dei 100 Personaggi più influenti al mondo dalla rivista americana Time. Il 23 novembre scorso un suo giornalista, Shady Zalat, è stato prelevato in casa e di lui si sono perse le tracce per oltre 24 ore. La mattina successiva la Sicurezza Nazionale, dopo un raid nella redazione di Doqqi (lo stesso quartiere dove viveva Giulio Regeni), ha portato al commissariato di Giza la stessa Attalah e altri due colleghi, Rana Mahmoud e Mohamed Hamama. In serata il rilascio dei tre e, in contemporanea, il ritorno a casa di Zalat, scaricato lungo la ring road del Cairo. Un chiaro avvertimento da parte della Sicurezza Nazionale, successivo alla pubblicazione su Mada Masr, il giovedì precedente, della notizia secondo cui il primogenito del presidente al-Sisi, Mahmoud, era stato demansionato: da vertice del Gis, il servizio di controspionaggio interno, a funzionario diplomatico presso l’ambasciata egiziana a Mosca.

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