Da quando il ministero della Salute ha dato il via libera al loro utilizzo negli aeroporti per fare un primo screening ai turisti, in molte Regioni è partita la corsa ai nuovi test rapidi (o “antigenici”). L’infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano Massimo Galli li ha definiti “il futuro” della lotta al coronavirus, perché permettono di sapere se si è positivi nel giro di pochi minuti, hanno una buona affidabilità e non c’è bisogno di analizzarli in laboratorio per avere il responso. Ma avverte che non vanno considerati come un’alternativa ai tamponi classici, bensì come uno strumento complementare e capace di fare da primo filtro alla circolazione del Covid-19. Rispetto agli altri test utilizzati dall’inizio della pandemia, infatti, ci sono delle differenze. E le cose cambieranno ancora quando, entro l’autunno, saranno commercializzati quelli “salivari” (ancora meno invasivi) su cui sono al lavoro diversi atenei. “All’esterno è simile a un test di gravidanza“, spiega a Ilfattoquotidiano.it il ricercatore dell’università dell’Insubria Lorenzo Azzi che ha avuto l’idea insieme al professore di biochimica Mauro Fasano. “Non servono laboratori, né personale specializzato. Quando il dispositivo entra in contatto con la saliva, dopo pochi minuti compare una linea che conferma o meno la positività al virus”.

Quali sono le differenze tra i vari test – Stando alle linee guida dell’Oms, recepite dalle normative italiane sin dall’inizio della pandemia, l’unico strumento di diagnosi per rilevare la presenza del Sars-Cov2 nel corpo umano è il tampone molecolare. Si effettua tramite una sorta di cotton-fioc che viene passato da un operatore specializzato nella gola e nel naso del paziente per prelevare le secrezioni respiratorie. Il campione viene quindi analizzato in un laboratorio di virologia per individuare l’eventuale presenza del codice genetico del virus (Rna). Per i cittadini che ne fanno richiesta autonomamente, i risultati arrivano in media in 1-2 giorni lavorativi. Durante i mesi più duri dell’emergenza non sono mancati problemi di carenza di reagenti o polemiche per la scarsa presenza di laboratori adatti sul territorio nazionale. Poi ci sono i test sierologici, cioè quelli che vanno a caccia degli anticorpi contro Sars-Cov2 nel sangue. Permettono sia di diagnosticare un’infezione attiva, sia la presenza di una risposta immunitaria dovuta a precedente infezione. Anche in questo caso i tempi non sono brevi e serve un’analisi approfondita. In commercio esistono pure i cosiddetti “pungidito” (sempre sierologici), scartati dalla gara nazionale indetta per misurare la diffusione del Covid in Italia a causa di una presunta inaffidabilità. Nelle ultime settimane sono tornati di attualità perché scelti come strumento di screening per prof e bidelli prima della riapertura delle scuole.

Cosa cambia con gli antigenici – I nuovi test rapidi, invece, rientrano in una categoria diversa. In sostanza rilevano la presenza di proteine virali (antigeni) nelle secrezioni respiratorie. Nel caso del Sars-Cov2, vanno a caccia della famosa proteina spike che ricopre la superficie del virus. Il modello utilizzato al momento negli aeroporti si basa sempre su un cotton-fioc che un addetto deve passare nel tratto naso-faringeo del paziente, ma il responso arriva entro pochi minuti direttamente sul posto. Se l’antigene del Covid è presente in sufficienti quantità, si lega ad anticorpi specifici fissati sul kit e conferma la positività al virus. L’analisi viene effettuata grazie a una piccola apparecchiatura portatile. La prima fornitura disposta dal commissario all’emergenza Domenico Arcuri prevedeva un prezzo compreso tra i 10,5 e i 12 euro a kit, ma nelle ultime settimane sono comparsi sul mercato internazionale nuovi produttori. E le stime del governatore Luca Zaia, prossimo a lanciare una gara d’acquisto insieme ad altre 4 Regioni, parlano di una tariffa intorno a 4,60 euro l’uno. Alcuni modelli di test rapido, inoltre, fanno a meno di qualunque macchinario e sono meno invasivi del tampone.

I nuovi test salivari – È proprio su questo che stanno lavorando diversi atenei italiani. Un’azienda brianzola, in collaborazione con l’università del Sannio, ha già ottenuto l’approvazione dal ministero della Salute e ha avviato la produzione industriale, garantendo “risultati anche in 3 minuti”. Poi c’è l’università dell’Insubria, al lavoro sin dal marzo scorso e seguita a ruota da altri atenei americani (già passati alla commercializzazione dopo il via libera dell’Fda). L’idea è quella di andare a caccia della proteina virale del Covid non nel tratto naso-faringeo, ma direttamente nella saliva. Un modo per facilitare ancora di più l’esecuzione del test e abbassare il costo finale per il Sistema sanitario. “L’idea è nata grazie a competenze diverse che si sono unite”, spiega al Fatto.it Lorenzo Azzi, odontoiatra e ricercatore in Malattie del cavo orale dell’Uninsubria. “Insieme al professor Fasano di Biochimica abbiamo ipotizzato che il Sars-Cov2 possa essere individuato anche nella saliva, dal momento che si trasmette tramite i droplets. Una soluzione che permetterebbe di evitare in futuro l’intasamento dei laboratori per i tamponi come avvenuto durante l’emergenza”. La sperimentazione è partita ad aprile, quando ancora non c’era letteratura sul tema. In laboratorio abbiamo ottenuto una sensibilità intorno al 93% rispetto al tampone molecolare fatto nello stesso momento”, chiarisce Azzi. Il test, quindi, permette di beccare 93 positivi su 100. “Dopo aver corretto una serie di parametri che davano troppi falsi positivi, abbiamo avviato il percorso di trasferimento tecnologico con un’azienda emiliana che ha stipulato la partnership con l’università”.

L’obiettivo è quello di partire entro l’autunno con la commercializzazione. “Una volta che ci sarà il via libera – chiarisce – si potranno usare ovunque. Al cinema, in teatro, in aeroporto. In 5 minuti è possibile avere il responso e non serve alcuna attrezzatura”. Un modo per cambiare la nostra strategia di contenimento del virus “anche in ottica di pandemie future“, conclude Azzi, sottolineando la sua soddisfazione per il fatto che lo studio scientifico pubblicato a marzo dal suo team ora viene citato in tutto il mondo. “Io mi occupo di patologie orali e non sono stato impegnato per assistere i pazienti covid, ma ho visto i miei colleghi di medicina e gli infermieri schierati in prima linea, pronti ad affrontare con determinazione la situazione. È stato questo a spronarci di giorno in giorno a fare lavoro di squadra: la nostra invenzione nasce grazie alla collaborazione di tutti i colleghi che hanno partecipato alla sperimentazione nonostante le difficoltà di questi mesi”.

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