A inquinare il dibattito pubblico sul taglio dei parlamentari non è solo il calcolo (errato) sul rapporto tra il numero di eletti ed abitanti che avremo in Italia in caso di vittoria del Sì. Una delle argomentazioni più volte sostenuta da politici e costituzionalisti schierati contro il referendum riguarda il presunto “rischio paralisi” per il Senato. In un editoriale su Repubblica, lo storico esponente dei dem Luciano Violante (già fautore di una bozza di riforma costituzionale mai approvata) sostiene che “la riduzione del numero dei senatori da 315 a 200, in assenza di altre riforme” della Carta o dei regolamenti “penalizza il sistema decisionale e incrina la legittimazione del Parlamento”. A suo parere, l’enorme mole di incarichi che spettano a chi siede a Palazzo Madama impedirà loro di “stare al passo” con i lavori della Camera. In effetti solo nell’attuale legislatura si contano al Senato più di 740 poltrone da occupare (con annesse indennità, dove previste), tra Commissioni permanenti, d’inchiesta e di controllo, comitati e organismi internazionali, presidenze, segreterie ecc. Ma basta guardare come sono distribuite per capire che la maggior parte è concentrata nelle mani dei big di partito o di chi ha fatto della politica la sua professione, mentre agli altri restano solo le briciole.

La spartizione degli incarichi – Tra i dem il record spetta a Valeria Fedeli. L’ex ministra dell’Istruzione è l’unica del suo schieramento a ricoprire sei incarichi: è membro della commissione permanente Lavori pubblici, di quelle straordinarie per i diritti umani e per il contrasto all’odio, fa parte della Vigilanza Rai, del Comitato parlamentare Schengen e della commissione d’inchiesta sui fatti accaduti presso la comunità “Il Forteto”. Senatori come Bruno Astorre e Mauro Laus, invece, ricoprono solo una carica. La situazione è pressoché identica in tutti i partiti più grandi (mentre in quelli più piccoli il multi-incarico è inevitabilmente più frequente). I record-men di Forza Italia sono Lucio Malan (6 poltrone, tra cui le ambite Giunte per il regolamento e per le immunità) e Fiammetta Modena (sempre sei), a fronte di colleghi come Adriano Galliani e Niccolò Ghedini la cui presenza a Roma è ridotta all’osso. Nella Lega Pillon, Riccardi e Urraro possono contare su cinque incarichi ciascuno, ma lo scettro spetta ai sei di Emanuele Pellegrini. Tra i 5 stelle sono imbattuti Alessandra Maiorino (cinque) e Sabrina Ricciardi (cinque, più il ruolo di membro supplente della Commissione contenziosa).

Equità nell’assegnazione dei ruoli e stop a settimana corta – Basterebbe distribuire gli incarichi in modo più equo, quindi, per evitare che certi senatori siano più stressati di altri. Oggi ne avrebbero al massimo tre, mentre in caso di vittoria del Sì alle urne il limite salirebbe a quattro (anche se è necessaria una deroga al divieto di presenziare a più Commissioni permanenti). Senza contare che da tradizione i lavori in Senato iniziano il martedì e finiscono il giovedì pomeriggio. Lo dimostra il registro delle sedute di molte commissioni: alla Giustizia l’ultima riunione di lunedì risale al novembre 2019, mentre i senatori che si occupano di Sanità non si vedono a inizio settimana almeno dal dicembre scorso. Incontri del venerdì praticamente non pervenuti: nel 2020 c’è traccia solo di un Ufficio di presidenza della commissione Affari costituzionali fissato per il 5 giugno e una plenaria della Affari costituzionali risalente al 26 giugno. Il calendario era stato pensato così per permettere agli eletti di riallacciare i rapporti con il territorio durante il weekend, anche se questo legame si è sempre più assottigliato con l’abolizione delle preferenze e le modifiche alla legge elettorale. Se invece le attività parlamentari fossero spalmate nell’arco dell’intera settimana, non ci sarebbe il rischio di sovrapposizione degli impegni più volte paventato dai sostenitori del No.

Modifiche ai regolamenti: le ipotesi in campo – In ogni caso l’orientamento di Pd e Movimento 5 stelle è quello di modificare i regolamenti parlamentari per introdurre alcuni correttivi – una condizione che il segretario dei dem Nicola Zingaretti ritiene indispensabile per il Sì del suo partito – e semplificare il lavoro dei senatori. Ad anticiparne i contenuti è il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato Dario Parrini. “Per evitare qualsiasi guasto” al sistema, spiega alla stampa, “bastano dei semplici adeguamenti regolamentari. Ci sono già delle ipotesi in campo, peraltro suscettibili di ulteriori approfondimenti: le commissioni permanenti senza danno alcuno potrebbero ad esempio diminuire da 14 a 10. Senza rischi può scendere il numero dei membri della giunta per il Regolamento, della giunta per le Elezioni e delle bicamerali ‘permanenti’ (Questioni regionali, Federalismo fiscale, Vigilanza Rai e altre)”. Molti organismi, infatti, oggi sono composti da 25 senatori (a cui si aggiungono 25 deputati nel caso delle bicamerali). Una cifra che si può ridurre senza penalizzare le minoranze. Secondo la maggioranza, gli altri nodi da risolvere sono il quorum necessario per formare i gruppi politici a Palazzo Madama (oggi occorrono 10 iscritti) ed eventualmente il numero legale di eletti previsto in alcune circostanze.

L’opinione degli esperti – Tutte soluzioni che non convincono gli oltre 200 esperti che hanno firmato “l’appello per il No”. A loro parere, “il taglio lineare prodotto dalla revisione incide sulla rappresentatività delle Camere e crea problemi al funzionamento dell’apparato statale“. La pensa così anche il dem Luigi Zanda, secondo cui “per riformare il regolamento occorrono maggioranze vaste, molto difficili da trovare. Ma soprattutto, bisognerebbe muoversi da subito, senza perdere tempo, in modo che nella prossima legislatura il Senato venga messo immediatamente nella condizione di lavorare. Altrimenti lo condanneremmo alla paralisi“. Zanda è un convinto sostenitore del No, anche se nel 2008 fu promotore insieme ad Anna Finocchiaro di una legge costituzionale identica nei numeri a quella di oggi (prevedeva 400 deputati e 200 senatori, senza correttivi). Il direttore del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, Maurizio Molinari, si spinge anche oltre: “Ridurre i parlamentari senza rivedere le funzioni del Parlamento – a cominciare da numero e ruolo delle commissioni – significa innescare un domino di difficoltà e di impasse dagli esiti imprevedibili“.

Tutte opinioni non condivise dall’ex presidente della Consulta Valerio Onida. Il sistema italiano, ha dichiarato nei giorni scorsi, “non funzionerà peggio, anzi potrebbe funzionare meglio se si coglie questa occasione per mettere mano a tanti aspetti dei regolamenti e delle prassi parlamentari. Oggi le Camere non funzionano bene, con dibattiti spesso ripetitivi in cui, invece di dialogare e confrontarsi sul merito delle proposte, ci si dedica per lo più a polemizzare con gli avversari”. Il punto è che “le presunte conseguenze negative della riforma che vengono oggi agitate, non mi sembrano tali. Non quella della necessità di concentrare il lavoro delle Camere in un minor numero di commissioni o di fare lavorare gli stessi parlamentari in più commissioni”. E anche “senza correttivi”, aggiunge, “un Senato di 200 membri può lavorare benissimo“.

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