Siamo tutti felici che il ponte di Genova stia per essere terminato senza intoppi ed in tutta celerità: abbiamo riscattato il nostro orgoglio nazionale di grandi costruttori di ponti, più di 900 i ponti romani censiti nel mondo e nel nostro territorio, dal più antico ponte sul Savuto sulla via Popilia, da Capua a Cosenza, a quello, più mediaticamente noto ed artefatto, il Milvio.

Nella narrazione giornalistica parzialmente corretta, che la ricostruzione sia andata avanti così speditamente dipende dal fatto che sono state eluse tutte le procedure del Codice Appalti, sia nell’incarico sia nella costruzione. Questo induce a qualche riflessione: mentre a Genova sono pressoché saltate tutte le procedure, altre opere pubbliche strategiche e rilevanti – sia pur di importi modesti – sono subordinate non solo alla pesantissima normativa ma gravate da una burocrazia asfissiante con ritardi e inadempienze inaccettabili.

Che il D. Lgs. 50/2016, nelle sue innumerevoli modifiche ed integrazioni, sia farraginoso ed ogni integrazione lo peggiori è assodato. Ogni progettista è costretto a leggere e rileggere una decina di volte i bandi per opere di importo anche modesto, a consultarsi con i Rup (responsabile unico del procedimento): porre quesiti alle amministrazioni è consuetudine quotidiana. In pratica ci vogliono decine di giorni per interpretare carte e poi presentare l’offerta che, in qualche caso, è impegnativa e costosa come un progetto vero e proprio.

Occorre anche considerare che molti di questi bandi sono relativi ad opere fondamentali ed urgenti – come carceri, ospedali, caserme dei carabinieri, scuole – la cui presenza ed indifferibilità sul territorio era stata richiesta decenni addietro dalle amministrazioni locali. Questi manufatti non sono meno importanti e strategici di un ponte, ma si aspetta che crollino prima di pensare ad intervenire con l’aggravante che si tratta quasi sempre di edifici storici vincolati.

Dalla prima segnalazione di fessurazioni o cedimenti passano mesi per la richiesta di fondi, basati su perizie redatte frettolosamente in modo approssimativo; la lentezza poi nell’indire le gare di progettazione, come si è detto per un ipotetico obiettivo di trasparenza, rende impossibile iniziare celermente i lavori. Ora il nuovo Codice riconferma anche l’affidamento senza consultazione di altri operatori diretti al di sotto dei 40.000 euro e l’appalto integrato, più volte messo e tolto. E qui occorrono due considerazioni.

Chi ha esperienza di progettazione di opere pubbliche sa benissimo che 4 mesi di elaborazione in studio, con l’ausilio non solo di collaboratori fissi, ma anche esterni quali ad esempio impiantisti, tenuto conto poi delle spese di trasferta per sopralluoghi a fronte della innumerevole quantità di elaborati che occorre produrre, porterà il professionista ad una sicura perdita economica.

Occorrerebbe elevare il tetto. Inoltre le Stazioni appaltanti dovrebbero costituire non solo generici elenchi per categorie ma vere graduatorie di merito a monte, sull’affidabilità del professionista, sulla “reputazione d’impresa”, basata sulla consegna nei tempi, sugli errori rilevanti riscontrati, sui tempi di approvazione, etc. Si è partiti dal concetto sbagliato del principio di colpevolezza o presunzione di dolo per progettazioni e lavori anche modesti per cui, nell’immaginario collettivo, più le gare sono aperte e complesse più è salvo il principio di trasparenza.

Chi lavora nel settore sa che non è propriamente così: in gare in cui partecipano in gruppo diversi studi solo per raggiungere gli obiettivi di fatturato e cv e nelle relazioni metodologiche sulle quali vige il criterio di discrezionalità, sta tutta l’ipocrisia del metodo.

Tanto varrebbe innalzare la soglia per gli affidamenti diretti, fermo restando il principio non solo di un curriculum consolidato del singolo studio ma dell’affidabilità su tempi, metodo di lavoro, attestati positivi degli Enti di controllo e lasciando la piena responsabilità amministrativa ai Rup che dovranno in tempi celeri assolvere al loro compito invertendo la logica del “chi non fa non fa falla”.

Questa sarebbe una sacrosanta riforma nel Codice Appalti Capo II Articolo 15 che incentiva a decidere ed attivare le procedure, per cui interessante è il Capo II sulla Responsabilità:

La norma chiarisce che il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica. Inoltre, fino al 31 luglio 2021, si limita la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità al solo profilo del dolo per le azioni e non anche per le omissioni, in modo che i pubblici dipendenti abbiano maggiori rischi di incorrere in responsabilità in caso di non fare (omissioni e inerzie) rispetto al fare, dove la responsabilità viene limitata al dolo.

Saranno poi i controlli durante e dopo l’espletamento dell’affidamento a stabilire la correttezza formale e sostanziale dell’operato, ci sono tutti gli strumenti informatici per verificarne la correttezza. In questo modo non ci saranno più alibi, responsabilizzando al massimo le Stazioni Appaltanti e creando il principio virtuoso di lavorare nel mero interesse della cosa pubblica preservando il nostro patrimonio pubblico salvaguardandone la bellezza.

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