“Il Parco Archeologico di Pompei dispone di un Ufficio dedicato alle attività di fundraising e di sponsoring. Per attivare le differenti forme di collaborazione tra Pubblica Amministrazione e Imprese e per facilitare il dialogo con i soggetti interessati a sostenere le attività del Parco, l’Ufficio Fundraising si occupa della raccolta di idee e proposte, studia e progetta attività, anche in sinergia con i mecenati culturali”.

Si chiama ‘Mecenati a Pompei’ il campo attivo inserito nel portale del Parco Archeologico di Pompei, che dà accesso a tre sottovoci che, nel concreto, costituiscono anche tre diverse opzioni per i potenziali investitori: “Fundraising”, “Art Bonus” e “Sponsor Art”. L’attivazione di quell’Ufficio è chiaramente un segnale. Molto più di un indizio sulle strategie future del parco archeologico che ha registrato nel 2019 oltre 3,93 milioni di visitatori.

“Il ministro Dario Franceschini aveva già in passato aperto le porte al fundraising istituendo l’Art bonus e indicando che nel management delle istituzioni culturali il fundraising, il marketing e la comunicazione dovessero avere un ruolo centrale. Oggi tocca ai singoli musei e istituzioni attivarsi per rendere concrete e fattibili queste iniziative di collaborazione pubblico-privato, mettendo in campo tutte le proprie risorse e competenze professionali”.

Il direttore generale Massimo Osanna ne è certo. L’operazione porterà nuove risorse per il restauro, come per la conservazione, senza dimenticare le nuove scoperte. Insomma Pompei si appresta a diventare una vera e propria macchina cattura-soldi. Ovviamente per provvedere all’espletamento di attività imprescindibili. Può essere considerato un “male”? Certo che no!

È necessario provare ad attirare risorse. In aggiunta a quelle statali e alle altre provenienti dall’Europa. È vitale poter contare su una cassa che permetta di provvedere a quegli interventi resi necessari, almeno fino a prima che si scatenasse la pandemia, dall’afflusso indiscriminato di turisti. È fondamentale che un’area archeologica così vasta possa far conto su un adeguato numero di persone dedite alla guardiania e su un servizio di sorveglianza efficace. Difficile eccepire su questo punto.

Quel che invece desta qualche perplessità è la gestione delle risorse che è più che probabile arriveranno. Perché Pompei ha una grande attrattiva. Costituisce molto più che un grande sito archeologico. È a tutti gli effetti, anche in relazione a come viene presentato, un brand. Al pari del Colosseo. Così gestire e amministrare quelle risorse potrebbe non rivelarsi semplicissimo.

Non certo per l’incapacità di chi dovrà occuparsene, quanto piuttosto per i più che probabili tentativi di approfittare della situazione da parte di piccole e grandi ditte appaltatrici e subappaltatrici. Quelle che si occupano di lavorarci, con varie modalità, all’interno del Parco. Perché Pompei non è un parco archeologico, ma una vera e propria città, estesa in superficie e con rilevanti problemi di conservazione. Sperare che a sovrintendere al nuovo Ufficio sia una solida struttura è legittimo. Perché altrimenti ogni sforzo sarà vano.

Ma il punto credo sia un altro, anche in questa circostanza. Pompei ha bisogno di risorse. Per vivere e crescere. È indubitabile. Ma forse questa esigenza è avvertita in maniera ancora più forte da un numero considerevolissimo di altri luoghi della cultura. Senza dubbio con un coefficente di attrattività inferiore a quello di Pompei. Senza dubbio con una rilevanza che è impossibile paragonare con quella di Pompei. Ma, in ogni caso, meritevoli di esistere. Ancora.

Perché, mentre nel parco archeologico si provvede all’ennesima scoperta sensazionale, riportata con ossequio dalla stampa nazionale, altrove accade che la chiusura prolungata di un’altra area archeologica, certo meno prestigiosa, non sia nota se non in ambito locale. Perché, mentre nel parco archeologico le indagini vengono estese in aree mai scavate, accade che altrove parte del sito, esplorato nel passato, venga sommerso dalla vegetazione infestante. In assenza, da anni, di una qualsiasi pulizia.

Certo nessuno può costringere un investitore ad offrire il suo contributo all’area archeologica di Potentia, nel maceratese, oppure alla Villa di Plinio nella pineta di Castelfusano, ad Ostia, piuttosto che al parco di Pompei. Nessuno può forzare chi vuole donare parte dei suoi beni a scegliere tra la necropoli di via Celle a Pozzuoli e Pompei.

La questione è un’altra. Bisognerebbe investire proprio su quei siti che sono al collasso da anni. Migliorarli per renderli più attrattivi. Anche agli occhi dei mecenati. Bisognerebbe creare quel corto circuito in grado di riattivare un interesse che si fa fatica a rintracciare, se non altro nel passato recente. Naturalmente questa sarebbe un’operazione rischiosa. Ma varrebbe la pena tentarla.

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