di Francesco Montorio *

Il 20 maggio scorso ricorrevano i 50 anni della legge n. 300 del 1970: Lo Statuto dei lavoratori. Uno spunto per tornare a parlare (non sarà mai abbastanza) dell’articolo 18, uno dei più emblematici e fondamentali nella tutela della Dignità dei Lavoratori, delle Persone.

Arrivava dopo un percorso di conquiste sociali realizzatesi nel solco della Costituzione. Oggi molte di queste ci sembrano normali, naturali. Occorre però ricordare che all’inizio della Repubblica le interruzioni del rapporto di lavoro nei contratti a tempo indeterminato erano regolate dal Codice civile e in particolare dagli articoli 2118 e 2119. Lavoratore e Azienda erano posti su un piano di parità formale per il quale ciascuno poteva recedere dal contratto di lavoro. Unica condizione il preavviso, che poteva persino mancare pagando una indennità o dimostrando una “giusta causa” tale da dover interrompere immediatamente il rapporto.

Nei primi vent’anni della neocostituita Repubblica si realizzavano molte delle indicazioni tracciate dai Costituenti. In tema di licenziamenti, fondamentale fu la legge 604 del 15.7.1966. Questa regolava la materia “legittimando” i licenziamenti per responsabilità soggettive, in pratica, del lavoratore (giusta causa e giustificato motivo) o motivati da situazioni oggettive di tipo economico ricadenti sulla azienda. In caso di licenziamento illegittimo la reintegrazione però era a discrezione del datore, che poteva optare per un risarcimento.

Quattro anni dopo lo Statuto capovolgeva questa impostazione e dette tale facoltà al lavoratore. La tutela reale della reintegra si poneva così non solo come elemento sanzionatorio/satisfattorio nel caso specifico, ma svolgeva una importante azione generale/dissuasiva contro comportamenti illegittimi da parte delle Aziende.

Comportamenti che, soprattutto nelle grandi aziende, possono talora sfuggire alla contrapposizione impresa-lavoratore per ricondursi nella più odiosa mera conflittualità tra persone, capo e sottoposto: forti divergenze personali, contrapposizioni ideologiche, contrasti comportamentali e così via. Situazioni non sempre facilmente tutelabili con le norme in materia di discriminazione e di molestie di genere. Con conseguenze non solo economiche ma anche psicologiche e relazionali a volte così gravi da lasciare segni indelebili.

Indubbio quindi che, per quanto da molti contrastato, l’art. 18 era una pietra miliare nella Storia della nostra Repubblica democratica, fondata sul lavoro (art. 1 Costituzione). Un baluardo alla difesa delle dignità delle persone, punto di arrivo e di partenza per realizzare quell’uguaglianza non solo formale indicata al secondo comma dell’art 3 della Costituzione.

Purtroppo ne parliamo usando l’imperfetto, perché oggi tale tutela è realmente presente solo per i dipendenti pubblici (Cassazione, n. 11868 del 9.6.2016). Infatti, l’art. 18 è stato prima svilito, sostanzialmente e processualmente, con la L. 92/2012 (che ha avuto ampia votazione) e poi del tutto eliminato col D. lgs. 23/2015 per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 (Jobs Act renziano).

Situazione sostanzialmente non mutata col “Decreto Dignità” (debole e insufficiente sul tempo indeterminato) e dopo l’intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 194 del 2018) che almeno ha riaffidato la quantificazione del risarcimento al giudice, pur sempre nei parametri previsti dalle norme.

L’art. 18, che direttamente interessa il 63,35% del totale dei posti di lavoro, troppo spesso è stato etichettato come “totem ideologico” per distrarre molti dalla sua reale portata e riducendo il dibattito a un conflitto tra diverse ideologie politiche e spesso ponendo gli stessi lavoratori in contrasto tra di loro.

Si applica però alle sole imprese di grandi dimensioni, circa il 6,22%, e non riguarda i piccoli imprenditori, gli artigiani, i commercianti, i professionisti e i loro dipendenti. Anzi loro stessi sono indirettamente danneggiati dalla sua eliminazione. Innanzitutto perché la Storia insegna che la perdita di diritti, anche solo per alcuni, spesso prelude alla perdita anche per altri o per ulteriori diritti (il processo vale anche al contrario e basti pensare a quanto accaduto in Europa negli ultimi due secoli).

Inoltre la diminuita capacità reddituale per la perdita del lavoro (ingiusto) o la riduzione delle retribuzioni sotto tale minaccia (se ne parla poco, ma chi ha esperienza sindacali ne sa qualcosa) si sostanzia, alla fine, in mancate opportunità di acquisto di beni e servizi e quindi in perdita economica per molti altri soggetti con ulteriori ricadute economiche a danno di tutti.

Meriterebbe quindi un più ampio e corretto approfondimento con un approccio più pragmatico che ideologico, analizzando e informando sulle norme e i dati a disposizione. Ribadiamolo, direttamente o indirettamente, salvo quella piccola percentuale di “sempre più ricchi” collegata alle grandi aziende, siamo praticamente tutti interessati alle tutele della dignità delle persone e alla “reintegra” dell’art.18! A prescindere dalle idee politiche e l’appartenenza a partito o movimento.

La recente pronuncia (11 febbraio 2020) del Comitato di Strasburgo che ha accolto il ricorso presentato nel 2017 dalla Cgil, in merito alla violazione in particolare dell’art. 24 della Carta sociale europea, è un ulteriore passo in avanti per ristabilire un criterio di giustizia sociale e perequazione di forze. Non possiamo però sempre e solo sperare negli interventi delle varie “corti di giustizia”.

Certo siamo tutti impegnati e “immersi” nella lotta al Coronavirus e alle sue conseguenze, economiche e sociali. Tuttavia, forse proprio per quanto sta accadendo e per gli sviluppi che ne potrebbero conseguire, bisognerebbe riprendere con forza e responsabilità il tema delle tutele reali e della dignità delle persone. Anche per non farci trovare impreparati e indifesi di fronte a scenari al momento ancora poco decifrabili.

Utilizziamo quindi la ricorrenza dei 50 anni per riportare decisamente il tema all’attenzione di tutti! Dobbiamo “sensibilizzare” i politici a intervenire realmente e presto. Purtroppo sembra che troppi siano più intenti a cambiare la nostra Costituzione che a realizzarla, soprattutto nel suo elemento “fondante”: il lavoro.

* Sono dipendente di un importante gruppo aziendale, con una trentennale esperienza maturata presso società leader soprattutto in ambito commerciale e nella formazione. Professional coach (diplomato ACSTH-ICF), ho tenuto docenze presso l’Università Insubria di Varese. Mi riconosco nei valori della Costituzione e quando posso realizzo incontri per divulgarne e difenderne i principi insieme agli amici del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale. Come per far conoscere la realtà dei licenziamenti individuali e sostenere il ripristino dell’art. 18 per tutelare la Dignità delle Persone. Sono associato a Comma2.

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