Gli operai dell’acciaieria ArcelorMittal di Genova la bollano come “una scusa”. Ci sono tutta la storia dell’acquisizione, le parole grosse messe nere su bianco negli atti presentati – e poi ritirati – davanti ai giudici negli scorsi mesi e quella finestra nascosta tra le pieghe dell’armistizio con il governo a sostanziare il pensiero: il coronavirus diventerà il grimaldello usato dalla multinazionale della siderurgia per riconsegnare le chiavi dell’ex Ilva allungando una vertenza che si trascina da 8 anni.

Non solo Ilva: Terni, Servola e Piombino – Ma nel pieno dell’emergenza sanitaria si intravedono diversi segnali di una grande crisi dell’acciaio italiano. Nel primo giorno della Fase 2, ThyssenKrupp ha annunciato che l’Ast di Terni, gioiello tirato a lucido negli ultimi 6 anni grazie ai sacrifici in busta paga degli operai, è sul mercato. Arvedi aveva già deciso prima dell’era Covid lo spegnimento dell’ultimo altoforno nella ferriera di Servola. Gli indiani di Jindal continuano temporeggiare sul rilancio dell’ex Lucchini di Piombino. Se la ‘botta’ economica per il sistema Paese è attesa dopo l’estate, la siderurgia italiana, già agonizzante, rischia di essere inghiottita dal vortice della crisi con mesi di anticipo.

Palombella: “Il governo anticipi le mosse” – “La situazione precedente all’epidemia era drammatica, la pandemia non può che aggravarla. Tra i 160 tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo Economico, la siderurgia rappresentava l’emergenza tra le emergenze”, dice Rocco Palombella, segretario generale dei metalmeccanici Uil. “Abbiamo migliaia di operai, che negli ultimi anni sono passati da crisi e tagli, in cassa integrazione con una busta paga da 900 euro al mese e scarse prospettive davanti – attacca il leader della Uilm – Ora è il momento che il governo anticipi le mosse, non subendo passivamente quanto decidono le aziende che hanno ampiamente usato in passato ammortizzatori sociali. Serve una difesa degli asset strategici”.

Le mosse (e i sospetti) su Mittal – Che si complica in uno scenario come quello post-emergenza per il coronavirus. E c’è chi sembra pronto ad approfittarne. ArcelorMittal ha spedito 1.000 operai in cassa integrazione dalla sera alla mattina, con una comunicazione sul portale aziendale e molti di loro lo hanno scoperto vedendosi rifiutare il badge all’ingresso. Il 6 maggio la scelta di spegnere alcuni impianti a Marsiglia, fornitori di lavorati grezzi per gli stabilimenti di Genova e Novi Ligure, aveva spinto la Fiom Cgil ad avvertire che ci sarebbero state ripercussioni anche in Italia. E così è stato. Ormai non lo nega neanche il ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli: “Mittal sta facendo capire che non ha nessuna intenzione di restare – ha detto martedì a La Stampa – E questo certamente ci costringerà di rivedere i nostri intendimenti”. La mobilitazione degli operai tra scioperi, cortei e blocchi delle merci in Liguria è partita negli scorsi giorni.

“Inizia la lotta, non c’è alternativa” – Per Palombella il momento di intervenire è ora: “Nel 2019, cinque mesi dopo l’insediamento a Taranto, chiedevano già ammortizzatori di fronte alla contrazione della domanda mondiale di acciaio. Tirando la corda sono riusciti a rinegoziare condizioni favorevoli su affitto e livelli occupazionali, nonostante un accordo sindacale firmato al Mise, e adesso stanno appena mantenendo in vita gli impianti”. Per questo, avvisa, “ora inizia un percorso di lotta, non c’è più alternativa”. I livelli di cassa integrazione, secondo il segretario della Uilm, sono “sproporzionati”. Il governo ha convocato un incontro con azienda e sindacati per lunedì prossimo, ma la strada sembra segnata: ArcelorMittal ha la possibilità di lasciare l’ex Ilva a fine anno pagando 500 milioni di euro.

La strategia della multinazionale: “Se ne andranno” – I segnali perché lo scenario si concretizzi, sostiene Palombella, ci sono tutti: “Stanno sfruttando la cassa integrazione per fermare i prodotti finiti, facendo marciare gli altoforni al minimo e vendono in Italia ciò che producono all’estero. E hanno avuto anche la sfacciataggine di chiedere 400 milioni di euro di garanzie statali, previste nel decreto Rilancio, a fronte di un fermo pressoché totale degli impianti. Si rischia che a dicembre vadano via lasciando macerie”. Per questo, avvisa, “è arrivato il momento di intervenire” ed “è inutile aspettare la fine dell’anno”. L’invito al governo è di “iniziare a lavorare su una soluzione industriale per evitare una cassa integrazione straordinaria di lungo periodo”. L’ennesima, nel caso dell’ex Ilva. “Se non vogliono restare, a questo punto è meglio che vadano via – è il ragionamento di Palombella – Ma paghino le penali che erano previste nel contratto, senza sconti”.

Thyssen cerca compratori per l’Ast di Terni – Per un sospetto di addio, uno è conclamato. ThyssenKrupp ha annunciato di dover tagliare i costi per “migliorare la performance in tutte le nostre divisioni aziendali”: insomma, come spiegato dall’amministratore delegato Martina Merz, il gruppo concentrerà le proprie forze sui settori a più alto margine e cederà quelli in perdita come la divisione siderurgica, che comprende anche l’Ast di Terni. Si cerca insomma un acquirente o un partner commerciale per un’acciaieria già passata nel quadriennio 2014-18 sotto una ristrutturazione pagata a caro prezzo dagli operai, con 537 uscite su circa 3mila dipendenti e la riduzione del 50% del contratto integrativo. Per salvare i problemi della casa-madre, visto che Terni era tornata in attivo, il gruppo di Essen aveva già tentato una fusione con Tata Steel ma era stato fermato dalle regole di Bruxelles. “Come dimostra la storia, anche in questo caso il Covid è una scusa”, continua il leader della Uilm ricordando che l’Ast dopo uno degli scioperi più lunghi e duri del Dopoguerra ha subìto anni di riorganizzazione “durante i quali sono stati ampiamente sfruttati gli ammortizzatori sociali”.

Il rischio delle “dismissioni a raffica” – La vendita, in un momento come questo, rischia di inserire l’Ast in una lunga lista di crisi industriali in bilico da tempo. Mentre restano in ballo ancora questioni antiche come l’ex Alcoa di Portovesme e l’ex Lucchini di Piombino, due ripartenze mai concretizzate nonostante annunci su annunci che si riverberano da anni. “Si è partiti dieci anni fa con l’alluminio, poi i tubi e i laminati, ora gli acciai speciali, che rappresentano un valore aggiunto nella crisi perché servono anche al settore medicale”, elenca Palombella. “Se si uniscono i puntini viene fuori un disegno che sta ammazzando la siderurgia italiana – conclude – In una fase come questa, si consumano misfatti. La situazione sta diventando ingestibile e rischiamo dismissioni a raffica. Il governo batta un colpo o gli operai si faranno sentire”.

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