Un parlamentare iracheno ha affermato a marzo, chiedendo di restare anonimo, che la pandemia di Covid-19 potrebbe permettere un risultato che polizia e paramilitari fondamentalisti non sono riusciti a ottenere in mesi di violenze: mettere fine al coriaceo (e apparentemente instancabile) movimento popolare esploso l’ottobre scorso.

Dopo sei mesi di scontri con il governo e le milizie filo-iraniane che lo difendono, costati oltre 600 morti e migliaia di feriti tra i dimostranti, il movimento aveva infatti annunciato (21 marzo) l’interruzione dei raduni per non aumentare i contagi.

L’appello, però, non è stato seguito da tutti. In molti continuano ad affluire sui luoghi dei sit-in, talvolta alternando le presenze per rendere possibile il distanziamento. Neanche i nemici del movimento si sono fermati per il lockdown: il 5 aprile la militante Anwar Jassem Mhawwas è stata assassinata a colpi d’arma da fuoco nella sua casa di Nassiriya. Due settimane dopo il governo ha annunciato un allentamento del coprifuoco per facilitare i rituali del Ramadan. Si è svolta allora una manifestazione a Baghdad, ma è stata repressa con le armi.

Il movimento dimostra una resistenza e una tenacia difficili da descrivere, rare persino per la dolorosa storia del Medio oriente. È composto da donne e uomini, caratterizzato da una forte intersezione generazionale e dalla presenza di salariati e studenti, giovani in “prima linea” sostenuti da familiari e anziani nelle retrovie. È figlio di un’esasperazione ventennale per vite vissute in ostaggio di potenze straniere come Stati Uniti e Regno Unito, che hanno occupato l’Iraq dal 2003 al 2011 (con il supporto, tra gli altri, dell’Italia), ma anche Turchia e Iran, che hanno precisato le loro zone d’influenza specularmente ai due paesi anglosassoni.

È proprio nelle città sciite del sud, dove il sentimento di molti è vicino alla dottrina ufficiale iraniana sul piano confessionale, che alla lotta per l’indipendenza dagli Stati Uniti si è affiancata, recentemente, quella per l’autonomia economica e politica da Teheran. Le proteste di ottobre hanno denunciato le condizioni di lavoro e reddito di una working class meridionale spesso alle dipendenze di aziende iraniane, non a caso date alle fiamme dai dimostranti con le sedi delle milizie irachene finanziate da Teheran. Il movimento non si è, però, limitato alla contestazione su basi economiche e nazionali. Ha cercato un sentiero d’ingresso nella politica, chiedendo un sistema elettorale che consentisse anche a candidati indipendenti di entrare nelle liste, fino ad allora bloccate, dei partiti, per rivitalizzare un futuro parlamento. La determinazione della piazza ha imposto la promulgazione di una nuova legge elettorale a fine dicembre.

Il ceto politico del dopo-invasione si è quindi sentito minacciato e ha cercato, in questi mesi, di eleggere un premier che sostituisse quello in carica ad ottobre, Abdul-Mahdi, travolto dalle proteste. Il tentativo è stato ogni volta mettere d’accordo i partiti nazionali e internazionali con gli umori della folla, missione finora impossibile. Contro la soluzione gattopardesca le piazze hanno prima preteso (dicembre) di essere consultate sul nome dei candidati premier e poi (febbraio) hanno proposto il loro candidato: il farmacista Alaa al-Rikaby, di Nassiriya, da tempo volto noto della protesta. La reazione delle milizie d’ispirazione religiosa è stata ancora più violenta e i manifestanti hanno raggiunto un picco di morti e feriti proprio quando il nuovo Covid ha raggiunto Iran ed Europa.

Ecco perché la pandemia è percepita come un toccasana da una classe dirigente di cui, oltre alla spregiudicatezza, non dobbiamo sottovalutare l’incompetenza. I numeri ufficiali di contagi e decessi (ad oggi 2.296 e 97) sollevano forti dubbi, e lo stesso lockdown è stato in parte ridotto a farsa dalle mazzette che a quanto pare è disposta ad accettare la polizia. Una generazione cresciuta sotto i bombardamenti angloamericani e tra gli attentati di Al-Qaeda e dell’Isis non sembra in un contesto del genere disposta a rincasare in silenzio. Anche il senso di responsabilità e la paura mutano di significato nei diversi contesti.

Un motto degli oppositori è stato, fin dall’inizio: “Adesso, o mai più”. Non tarderemo a sapere se le ciniche previsioni dei gattopardi del Parlamento avevano colto nel segno.

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