C’è chi ha concesso il buono spesa in modo automatico a chi lo ha richiesto, e chi invece lo ho fatto dopo un colloquio. In alcuni Comuni sono state individuate delle fasce di priorità, in altri è stato chiesto agli assistenti sociali di valutare i bisogni dei richiedenti. E ancora: qualcuno ha scelto il bonifico diretto sul conto corrente, molti si sono affidati ai classici buoni pasto, altri hanno utilizzato i fondi per comprare beni alimentari da consegnare personalmente ai beneficiari. Tra migliaia di regolamenti, bandi e istruttorie differenti, la distribuzione delle risorse destinate a chi non riusciva a fare la spesa a causa dell’emergenza coronavirus si è trasformata in un caos normativo. Ma non solo: “Con questa misura si sono create 7908 disuguaglianze”. Il numero a cui fa riferimento Gianluca Budano, Consigliere nazionale Acli con delega alle politiche della famiglia e della salute, non è casuale: ricalca quello dei comuni italiani, che senza regole precise hanno agito ognuno per conto proprio.

“L’assenza di criteri a livello nazionale aumenta il rischio di tagliare fuori chi è più in difficoltà”, ricorda Gianmario Gazzi, presidente dell’Ordine degli assistenti sociali. “Alcuni Comuni, ad esempio, hanno escluso chi non è residente. Ma anche chi è bloccato nel territorio in cui vive, o chi è irregolare, ha bisogno di mangiare. Il diritto sociale non può essere garantito a seconda delle regole applicate nel territorio in cui ci si trova in quel momento”. E anche i giudici italiani sembrano pensarla così. Il tribunale civile di Roma ha accolto il ricorso di un immigrato filippino senza permesso di soggiorno che contestava la delibera del comune guidato da Virginia Raggi, in cui si chiedeva la residenza anagrafica come requisito per il buono spesa. Sulla stessa linea il tribunale amministrativo dell’Abruzzo, che ha accolto il ricorso di un lavoratore stagionale pugliese domiciliato a L’Aquila, altro Comune che ha inserito la residenza come requisito per l’accesso ai buoni spesa. E pochi giorni fa anche il tribunale di Ferrara ha bollato come discriminatoria la decisione del sindaco leghista Alan Fabbri di erogare i buoni dando priorità a chi ha la cittadinanza italiana.

Dai bonifici ai buoni sulle carte prepagate o sulla tessera sanitaria: come si sono organizzati i Comuni – Roma è la città che ha ricevuto il contributo più sostanzioso, 15 milioni di euro. L’importo va dai 300 euro per i nuclei composti da una o due persone ai 500 per quelli più numerosi. Le somme sono distribuite tramite buoni spesa consegnati a domicilio, ma c’è anche la possibilità di utilizzare un’applicazione per smartphone. A Milano, che ha ricevuto 5,8 milioni, le risorse vengono assegnate sulla base di una graduatoria che tiene conto di una serie di parametri tra cui il numero di minori o di over 65, la presenza di disabili e il patrimonio immobiliare delle famiglie. I buoni sono erogati in un’unica tranche tramite una carta prepagata consegnata a domicilio oppure utilizzando Satispay, un’applicazione di pagamenti via smartphone. A Napoli il bonus è suddiviso in 100 euro a settimana per quattro settimane, 120 euro nel caso di famiglie con neonati. Per l’erogazione il Comune ha scelto il buono spesa, ma senza la consegna fisica: il relativo Pin viene inviato ai beneficiari tramite email o sms ogni settimana, e si può utilizzare per fare la spesa solo nei supermercati indicati dal Comune.

La Provincia di Trento ha invece deciso di erogare il bonus con un accredito diretto sul conto corrente. I requisiti fondamentali sono la residenza in Provincia e l’assenza di qualsiasi fonte di reddito nei due mesi antecedenti la presentazione della domanda, con la verifica delle autocertificazioni, a campione, affidata ai servizi sociali. Seguendo l’esempio di Cesena, anche Cagliari ha scelto di accreditare il buono sulla tessera sanitaria, mentre a Bergamo, dove l’erogazione avviene dopo una breve valutazione da parte dei servizi sociali, il Comune ha scelto un sistema misto, dalle carte prepagate ai buoni pasto fino alla spesa consegnata a domicilio ai soggetti più fragili. In alcuni Comuni infine, come a Fiumicino, nel Lazio, e a Brugherio, in Brianza, si è deciso di acquistare direttamente gli alimenti e distribuirli a chi ne ha diritto, una soluzione rapida scelta da molte piccole e medie realtà dove è più semplice utilizzare la filiera corta, rivolgendosi direttamente ai produttori del territorio.

Anci: “Eravamo impreparati e senza riferimenti nazionali” – Il 28 marzo scorso il presidente del consiglio Giuseppe Conte annunciava il buono spesa e un impegno economico di 400 milioni di euro, ripartiti seguendo il criterio demografico e quello del divario sociale. Una cifra importante, considerando che in condizioni normali i Comuni italiani ricevono, in un intero anno, poco più di 500 milioni di euro per i contributi agli indigenti, ma che è stata messa nelle mani dei sindaci senza indicazioni: “È una misura che ci è piovuta addosso in maniera improvvisa e ci ha trovati impreparati”, dice Edi Cicchi, presidente della Commissione welfare dell’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani, e assessore del comune di Perugia. “Non avendo un riferimento nazionale, ognuno ha fatto un’analisi del proprio territorio in grande velocità”. Complice l’assenza di requisiti generali, ai comuni italiani, secondo una prima stima, è arrivata una quantità di domande doppia rispetto alle aspettative: “A Perugia ci aspettavamo poco più di 2000 richieste: ne sono arrivate 4300. Questo ha complicato il nostro lavoro e ha allungato i tempi”.

Ordine assistenti sociali: “Risposta alla povertà, ma senza intercettare i bisogni” – Molti comuni hanno scelto di erogare il contributo sulla base di una semplice domanda, senza valutazione e senza contatto, con l’obiettivo di assicurare un intervento tempestivo. “Questo ha permesso di rispondere velocemente alla situazione d’emergenza, ma non di intercettare la povertà e leggere i bisogni emergenti”, spiega Gazzi. “Badanti, giovani donne con lavoro precario, situazioni di violenza domestica, anziani senza figli o ancora persone disabili rimaste sole hanno bisogno di supporto subito: accanto a ogni intervento economico serve una rete di professionisti pronti a intervenire nella complessità delle storie di ognuno”. Altre amministrazioni hanno messo in piedi in pochi giorni un sistema in cui agli assistenti sociali, oltre alla valutazione dei requisiti, spettava anche la decisione finale. “Così si è sprecato tempo a riempire moduli, prendendo decisioni sulla base di una valutazione costruita in emergenza, quando invece si dovrebbe pensare ai bisogni primari”. La soluzione migliore, secondo Gazzi, sarebbe stata quella di erogare il sostegno dopo una valutazione non vincolante da parte degli assistenti sociali: “Oltre a stabilire criteri di accesso più chiari, è necessario farsi carico delle persone per intercettare i bisogni reali. Pensiamo ai senza fissa dimora, o a chi vive in uno stato di grave marginalità sociale nelle periferie della nostre città, o ancora all’anziano isolato sull’Appennino che ha poca dimestichezza con gli strumenti tecnologici: non possiamo permettere che le persone più in difficoltà, che non hanno competenze e possibilità, rimangano escluse e perdano occasioni come questa”.

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