di Diego Battistessa*

È arrivata l’ora della Fanesca in Ecuador, una tradizionale zuppa che raccoglie in sé l’identità e la cultura di questo paese adagiato sulla linea dell’equatore. La Fanesca non è solo un piatto pasquale, si tratta infatti di un simbolo di convivialità che le famiglie ecuadoregne consumano nei ristoranti di tutto il Paese sono una volta all’anno: il Venerdì Santo. Baccalà, zucca, fagioli, choclo, mais, piselli, fagioli, riso, cipolla, aglio, cumino, arachidi, latte, panna, uova e formaggio. Gli ingredienti che raccontano e rappresentano la produzione agroalimentare di un intero Paese, una metafora di uno sforzo congiunto per raggiungere un obiettivo comune.

Nel 2020, questa metafora ha rappresentato più che mai lo sforzo collettivo per superare una crisi sanitaria, quella del Covid-19, che in poche settimane ha messo in ginocchio l’Ecuador. Superati oramai i 7000 casi accertati con una distribuzione su quasi tutte le province del territorio: Galapagos 11, Guayas 5381, Santo Domingo de los Tsáchilas 60, Esmeraldas 38, Manabí 214, Santa Elena 77, Los Ríos 239 y El Oro 150, Bolívar 33, Chimborazo 74, Imbabura 33, Tungurahua 42, Cotopaxi 42, Pichincha 627, Carchi 24, Cañar 97, Azuay 178, Loja 65. Le morti, secondo i dati ufficiali rilasciati dalle autorità, sarebbero meno di 350, ma esiste il sospetto che molti cadaveri non siano stati censiti viste le condizioni di isolamento e inaccessibilità di varie zone del Paese.

Come dimostrano i dati forniti dal governo di Lenin Moreno, la provincia del Guayas, e nello specifico la città di Guayaquil (il suo capoluogo), è l’epicentro di questa emergenza sanitaria. Una città orgogliosa, fiera, sempre in aperta rivalità con la capitale Quito, fin dai tempi dei Padri della Patria, fin dai tempi di Eloy Alfaro. Una città che pochi ricordano aver giocato un ruolo fondamentale per i destini della regione latinoamericana.

A Guayaquil, quasi 200 anni fa, il 26 e 27 luglio del 1822, si riunirono il Libertador Simón Bolivar e il Generale San Martin. Il primo veniva dall’aver liberato la Nuova Granada (l’odierna Colombia), il Venezuela e l’Ecuador dal dominio spagnolo, il secondo aveva portato avanti una campagna vittoriosa in Argentina, Cile e Perù, contro lo stesso nemico. L’esito di quella collisione di mondi porterà alla definitiva sconfitta dell’esercito spagnolo ad Ayacucho (Perù) il 9 dicembre del 1924 e all’inizio del lungo e travagliato cammino delle repubbliche sudamericane.

Oggi Guayaquil è ancora il centro dell’attenzione dell’intera regione latinoamericana e quello che sta succedendo per le sue strade è un macabro avviso, un monito ad agire in fretta, una fotografia di un futuro che si deve riuscire ad evitare. Abbiamo visto i morti accatastati sui marciapiedi e bruciati per le strade, abbiamo visto le bare di cartone, la disperazione di chi non solo ha perso i propri cari ma anche il diritto di piangerli e poterli seppellire. Abbiamo visto un popolo che soffre e che lotta con dignità e determinazione. Questo popolo, crogiuolo di identità e cosmogonie, dove il cristianesimo è solo una delle tante verità, oggi più che mai ha bisogno del miracolo della resurrezione.

Senza poter contare su di un sistema di pensioni efficace, con un salario base di 400 dollari mensile e con quasi il 50% della popolazione dedita a lavori informali, l’idea della quarantena in casa è semplicemente impossibile per la maggior parte delle 17 milioni di persone che abitano il Paese. A loro vanno sommati i 70 mila rifugiati e le diverse centinaia di migliaia di migranti economici, provenienti per lo più da Venezuela e Colombia, che vivono al margine, in estrema vulnerabilità e con ingressi economici che nella maggior parte dei casi non coprono le necessità basiche. E poi le popolazioni indigene, che vivono nelle zone più remote del Paese, con poco o nessun accesso ai centri di salute e con altre epidemie alle quali far fronte (ad esempio il Dengue).

Il 12 di aprile il presidente ha annunciato altre misure straordinarie. Il taglio del 50% degli stipendi dei membri dell’esecutivo, dei parlamentari e dei governatori delle province, la creazione di un conto corrente per l’emergenza umanitaria e la contribuzione obbligatoria di parte dello stipendio (in maniera proporzionale) per tutti coloro che guadagnano più di 500 dollari. Queste misure dovranno sommarsi ad un aiuto internazionale necessario e urgente oltre ad un piano di contenimento dell’aumento delle sacche di povertà.

La Fanesca nonostante tutto ha resistito al coronavirus, le famiglie ecuadoregne l’hanno cucinata in casa, ognuna a modo suo, con gli alimenti che sono riuscite a trovare aggiungendo quest’anno un ingrediente in più: un pizzico di speranza.

*Docente e ricercatore dell’Istituto di studi Internazionali ed europei “Francisco de Vitoria” – Università Carlos III di Madrid. Latinoamericanista specializzato in Cooperazione Internazionale, Diritti Umani e Migrazioni. www.diegobattistessa.com
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