Togliere l’IVG (interruzione volontaria di gravidanza) dagli ospedali per limitare il rischio di contagio e tutelare la salute delle donne, allungare a 9 settimane invece delle 7 attuali il limite per la somministrazione dei farmaci abortivi (mifepristone e misopristolo), e dare la possibilità di fare tutta o parte della procedura a casa propria. Sono le richieste di Pro-choice (firma qui la petizione) rete italiana contraccezione e aborto con le associazioni Amica (Associazione medici italiani contraccezione e aborto), Laiga (Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’applicazione della legge 194/78) e Vita di donna, che hanno lanciato una petizione online rivolta all’Agenzia italiana del farmaco (AIFA), Ministero della salute, Presidenza del Consiglio. E’ da giorni che il tema è stato portato all’attenzione delle istituzioni, come raccontato da ilfattoquotidiano.it il 26 marzo scorso. Attualmente l’unico provvedimento del ministero della Salute consiste in una circolare con elenco delle prestazioni non differibili, tra cui le interruzioni volontarie della gravidanza (IVG). In Lombardia, però, molti ospedali hanno sospeso il servizio (ad esempio a Saronno, Busto Arsizio, Rho, Piacenza, provincia di Brescia) e così in altri ospedali del Nord Italia.

“Purtroppo per interrompere la gravidanza non si può far altro che andare in ospedale, benché sia uno dei luoghi più a rischio contagio in questo momento, dove sono previsti addirittura 4 accessi per l’intero percorso”, dice Marina Toschi, ginecologa di Pro-choice RICA. “La maggioranza degli ospedali l’aborto farmacologico non lo facevano neanche prima del Covid-19, visto che la percentuale di utilizzo in Italia è ferma al 17,8%. E gli altri, quelli virtuosi, adesso lo fanno ancor meno, perché le indicazioni dell’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) prevedono addirittura un ricovero ospedaliero di tre giorni”. Un fatto eclatante, se consideriamo che in molti altri paesi europei sono già da molti anni gli ambulatori e consultori a fornire assistenza, sul quale la rete aveva già cercato di attirare l’attenzione come abbiamo raccontato nel nostro articolo del 26 marzo scorso. “Chiediamo di allineare le procedure italiane alla letteratura scientifica e alle migliori pratiche indicate dalla Organizzazione mondiale della sanità e già praticate in tanti altri Paesi, evitando l’ospedalizzazione e portando l’IVG nel territorio” spiega Toschi. Come? “L’Aifa dovrebbe aggiornare le raccomandazioni, ferme al 2010, e il governo dovrebbe fare un provvedimento d’urgenza per consentire l’assistenza in telemedicina”.

La richiesta avanzata dalle associazioni Amica (Associazione medici italiani contraccezione e aborto), Laiga (Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’applicazione della legge 194/78) e Vita di donna, oltre che dalla rete Pro-choice, è sostenuta da un ampio ventaglio di soggetti, singoli e collettivi. Tra i parlamentari, Laura Boldrini, Lia Quartapelle, Rossella Muroni, Marco Cappato, Valeria Fedeli, Chiara Gribaudo. Hanno firmato anche Susanna Camusso, Nerina Dirindin, Livia Turco. Tra le intellettuali, Michela Marzano, Roberto Saviano, Moni Ovadia, Lea Melandri, Mariarosa Cutrufelli e le attrici Lella Costa, Ottavia Piccolo, Angela Finocchiaro, Arianna Scommegna, Emma Dante. Molte le associazioni, tra cui Arci nazionale, Aidos (Associazione italiana donne e sviluppo), CGIL (Politiche di genere e Nuovi diritti), nodi della rete nazionale Non una di meno. Sono circa quattrocento le firme che lanciano l’appello, tra cui tantissime di ginecologi, ginecologhe e ostetriche che si trovano ogni giorno in prima linea nell’applicazione della legge 194, in condizioni spesso difficili come denunciato più volte da articoli ed inchieste giornalistiche, interrogazioni parlamentari, richiami del Consiglio d’Europa.

Nell’appello, che si può sottoscrivere sulla piattaforma Avaatz, si chiede di ammettere al trattamento le donne in gravidanza con amenorrea fino a 63 giorni (9 settimane), invece che fino a 49 giorni (7 settimane); (come peraltro indicato nel bugiardino del Myfegine, il secondo dei due farmaci che si utilizzano nella procedura) di eliminare la raccomandazione del ricovero in regime ordinario dal momento della somministrazione del mifepristone al momento dell’espulsione; di introdurre il regime ambulatoriale (“at home” nella letteratura scientifica) che prevede un unico passaggio nell’ambulatorio ospedaliero o in consultorio, con l’assunzione del mifepristone e la somministrazione a domicilio delle prostaglandine, procedura già in uso nella maggior parte dei paesi europei; di ammettere una procedura totalmente da remoto, monitorizzata da servizi di telemedicina, come è già avvenuto in Francia e nel Regno Unito, in via transitoria, in situazione di particolare difficoltà e in relazione all’attuale stato di emergenza.

Proprio in Francia l’aborto farmacologico è praticato in ambulatorio dagli anni ‘90 e dal 2016 possono praticarlo anche le ostetriche. Qui il CNGOF (Collège National des Gynécologues et Obstétriciens FrançaisCollege) ha ora pubblicato nuove raccomandazioni per l’assistenza all’aborto volontario durante la pandemia da coronavirus.

“Le raccomandazioni francesi impongono di incoraggiare l’IVG farmacologica a casa, spiegando i motivi alla paziente, e di raggruppare in un unico luogo e accesso il consulto ginecologico, la valutazione degli esami, l’ecografia di datazione, anche in caso di aborto chirurgico (per il quale è suggerita l’anestesia locale quanto più possibile). Inoltre, in Francia, gli e le operatrici IVG (ginecologhe/i ed ostetriche/i) hanno ricevuto dal Ministero l’autorizzazione per la telemedicina dopo un giorno dalla chiusura totale e messo online le informazioni e i documenti di cui hanno bisogno”. Lo sottolinea la rete Pro-choice in un’altra comunicazione, mandata alle società scientifiche di riferimento per la salute sessuale e riproduttiva SIGO (la Società che riunisce le tre associazioni AOGOI, AGITE e AGUI, rispettivamente dei ginecologi ospedalieri, territoriali e universitari) per chiederne l’intervento. La SIGO per ora non ha risposto alla sollecitazione, benché AOGOI, l’associazione dei ginecologi ospedalieri, sostenga la necessità di de-ospedalizzare l’accesso all’aborto farmacologico, come riferito a ilfattoquotidiano.it dalla sua presidente Elsa Viora.

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