Tengono in piedi gli ospedali italiani, lavorando anche 12 ore al giorno, mentre pagano per una formazione sempre più carente. Nel momento dell’emergenza il servizio sanitario nazionale ha chiesto un ulteriore sforzo agli specializzandi, ma il riconoscimento per quel lavoro extra, e per il rischio che comporta in questo periodo, complice anche la carenza di dispositivi di protezione, è un semplice contratto di collaborazione. Il decreto legge del 9 marzo ha fatto cadere le incompatibilità previste dal contratto di formazione specialistica, dando la possibilità di assumere gli specializzandi dell’ultimo e del penultimo anno, ma è il tipo di contratto previsto, il cococo, che fa infuriare i giovani medici. “Non abbiamo diritto al tfr e ai trattamenti economici che riguardano i turni di reperibilità, le guardie notturne e l’indennità di rischio, riconosciuta al medico strutturato che lavora in ospedale”, spiega Lucilla Crudele, rappresentante del Segretariato italiano dei giovani medici nel Consiglio nazionale degli studenti universitari. Non sono previste neanche le ferie, e dopo 10 giorni di assenza non retribuita il contratto viene rescisso. Ma soprattutto, come ogni cococo, anche questo non dovrebbe prevedere vincoli di sede e di orario, mentre gli specializzandi in questi giorni sono impegnati anche per 50 ore a settimana nei reparti covid-19. “Dopo un percorso di studio durato anni, in piena emergenza sanitaria veniamo mandati al fronte a salvare vite con un contratto di collaborazione. Chiediamo almeno il riconoscimento professionale attraverso un contratto a tempo determinato”.

Nei giorni scorsi, dopo i tanti appelli delle associazioni, è stato presentato un emendamento che consentirebbe ai medici in formazione di stipulare contratti di lavoro a tempo determinato per la durata di 12 mesi, mantenendo l’iscrizione alla scuola di specializzazione. Lo stesso decreto, con un’altra deroga, ha previsto anche la possibilità di assumere i neolaureati in medicina: “Benissimo, ma la carenza riguarda gli specialisti”, ricorda Crudele. “Non ci si improvvisa rianimatori: se ne stanno arrivando da ogni parte del mondo è perché non ce ne sono abbastanza”. In Italia gli aspiranti specialisti non mancano: il prossimo test di accesso alle scuole di specializzazione, ad esempio, vedrà 22.500 candidati, tutti laureati in medicina e abilitati alla professione. Le borse però sono solo 8mila e chi rimane fuori deve aspettare un anno, quando si aggiungeranno nuovi laureati. Un imbuto formativo che si è creato anche per i ripetuti tagli alla sanità: “Negli ultimi anni nessuno ha ritenuto fondamentale stanziare fondi per la formazione specialistica, così ora, in emergenza, si è costretti a provvedimenti d’urgenza. E a rimetterci siamo noi, con i contratti cococo”. E con tutti i rischi legati all’epidemia. Gli specializzandi che si trovano a far fronte all’emergenza coronavirus infatti sono esposti come tutto il personale sanitario, se non di più, ai pericoli del contagio: “I dispositivi di protezione individuale a volte non ci sono neanche per i medici strutturati, ma gli specializzandi sono sempre gli ultimi a riceverli”, dice Martina Tarantini, che si occupa della questione per il Sigm. E non basta recapitare agli ospedali qualche mascherina, ogni tanto: “Ci vogliono dispositivi adeguati per tipologia e per tempistiche. Non si può fornire una mascherina ffp2 a chi sta a contatto con i pazienti covid-19 e chiedergli di usarla per un mese, così come quella chirurgica non si può utilizzare per una settimana intera”.

L’emergenza ha ovviamente bloccato tutte le attività formative di ambulatorio,. Quello che non è ancora stato bloccato però è la prossima rata delle tasse universitarie: “Se qualche ateneo ha deciso, in ordine sparso, di posticiparle o dilazionarle per gli studenti, per gli specializzandi non si è fatto nulla”, attacca Mirko Claus, presidente di Federspecializzandi. “Ci aspettavamo un riconoscimento, soprattutto ora che siamo impegnati in questa battaglia, invece veniamo trattati da studenti o da lavoratori a seconda della necessità del momento”. A Bologna, su questo tema, si è aperto uno scontro con il rettorato: “L’Università quest’anno ha addirittura aumentato di 250 euro la quota annuale, arrivata a 2650 euro”, spiega Flavia Rallo, portavoce di Federspecializzandi Bologna. “Un aumento ingiustificato già prima, dato che la didattica non è stata migliorata in alcun modo, ma che nell’ottica di un periodo emergenziale fa ancora più male”. La prossima rata, 1300 euro, andrà versata in aprile, e l’associazione ha scritto una lettera al rettore e a tutti gli organi accademici coinvolti: “Gli altri studenti svolgono la loro didattica online, mentre noi esistiamo solo come tappabuchi del sistema: nessuno si occupa della qualità dell’assistenza fornita e dell’insegnamento. Ora siamo eroi, ma quando questa emergenza sarà finita temiamo che tutto torni come prima”.

La questione formativa però va ben oltre le tasse universitarie. La qualità delle strutture è valutata annualmente dall’Osservatorio nazionale per la formazione medico-specialistica (ONFMS), un organo del Ministero dell’Università. “Dopo la scadenza naturale, più di un anno fa, non è ancora stato rinnovato”, spiega Lucilla Crudele. L’ONFMS dovrebbe verificare i requisiti che le scuole dichiarano in fase di accreditamento: “Parliamo, banalmente, del numero di sale operatorie per poter formare i chirurghi: se nessuno controlla, chi mi assicura che una certa struttura abbia davvero le caratteristiche che dichiara?” La rete formativa, in ogni caso, andrebbe allargata. Ma anche saturando quella attuale, con 13mila posti, non si risolverebbe il problema degli specializzandi, perché il numero delle borse è sempre fermo a 8mila. E il problema continua a essere ignorato: “La prima bozza di decreto prevedeva lo stanziamento di 5mila borse di studio, poi la misura è stata eliminata per mancanza di coperture. È impossibile essere pronti a una pandemia come quella in corso, ma la nostra impreparazione è strutturale ed è dovuta anche a questo”.

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