Money changes everything” dice Cindy Lauper, che di mestiere fa la cantante e non la politica, ma che coglie perfettamente una caratteristica centrale delle elezioni Usa. Il denaro cambia tutto, cambiano soprattutto le chance che i candidati hanno di fare campagna e di farsi eventualmente eleggere. La cosa non vale soltanto per le presidenziali, ma alle presidenziali appare in tutta la sua forza. Gli sfidanti hanno bisogno di decine e decine di milioni di dollari per andare avanti; chi non trova i soldi è spacciato. Come ha fatto notare Cory Booker, il senatore del New Jersey che ha dovuto abbandonare la corsa proprio perché a corto di dollari, “nelle primarie di quest’anno ci sono più miliardari che membri delle minoranze”. Mike Bloomberg e Tom Steyer finanziano le rispettive campagne con i conti in banca personali. Gli altri candidati hanno disperatamente bisogno di trovare cash per reggere il passo.

È da almeno mezzo secolo – con l’aumento esponenziale dei costi della politica – che il peso dei soldi condiziona pesantemente le elezioni americane. C’è chi non ci fa caso e anzi lo rivendica esplicitamente. Sabato sera Donald Trump ha presenziato a una cena privata con 40 super-ricchi che hanno pagato 10 milioni di dollari per stare nella stessa stanza con il presidente – e collaborare alla sua rielezione. Molto più difficile esibire il potere dei soldi in casa democratica: un po’ perché la tutela della politica dai condizionamenti di lobby e dollari è un tema che si è progressivamente imposto nella base democratica; un po’ perché in corsa quest’anno ci sono almeno due candidati – Bernie Sanders ed Elizabeth Warren – che del rifiuto del potere dei soldi hanno fatto la loro bandiera. Gli altri, quindi, devono adeguarsi. Mike Bloomberg, che si paga la campagna con i 60 miliardi della sua fortuna personale, ha detto di voler mettere dei paletti al potere di Wall Street: tassando le transazioni finanziarie, rendendo disponibili alcuni servizi finanziari nelle poste americane, tagliando la possibilità delle banche di finanziare con il debito le loro operazioni.

Se anche Bloomberg, espressione più compiuta del potere delle lobby di Wall Street, ha bisogno di mostrarsi duro contro Wall Street, significa che il tema c’è e risuona potentemente nell’elettorato democratico. Anche quest’anno comunque il sistema politico Usa mostra un modello ormai conosciuto: lobby, corporation, Big Business che cercano di comprarsi leggi e appoggi finanziando le campagne dei candidati. Non è per tutti così. Warren e Sanders hanno appunto fatto dell’esclusivo ricorso ai piccoli finanziamenti uno dei punti d’onore delle loro campagne. E a inizio primarie praticamente tutti hanno solennemente promesso di rifiutare il denaro di lobbisti e corporation. In realtà, non è andata così.

PROCLAMI E REALTA’ – Tutti i candidati hanno promesso di non accettare un solo dollaro degli “interessi speciali”. Quando però Beto O’Rourke, allora candidato in ascesa, presentò il suo primo rendiconto finanziario – era l’aprile 2019 – un lobbista Chevron del New Mexico e uno di una compagnia energetica apparivano tra i finanziatori. Stessa cosa è avvenuta per Kemala Harris, anche lei uscita dalla corsa presidenziale, anche lei granitica nel rifiutare i soldi delle lobby. Eppure, tra i suoi donatori, apparivano lobbisti del settore dell’hi-tech del South Carolina, di New York e della California. Robert Crowe, lobbista che lavora tra gli altri per Alphabet, la holding di Google, era tra questi. Come è potuto succedere? Semplice. Il “Lobbying Disclosure Act”, la legge che governa le attività di lobby, è facile da aggirare. Ci sono lobbisti a livello federale, che non lo sono a livello statale. E ci sono lobbisti che non sono registrati come lobbisti. Si prenda per esempio Jay Carney, capo ufficio stampa ai tempi di Barack Obama. Dopo la Casa Bianca, Carney si è trovato un lavoro ad Amazon, il cui capo lobbista risponde proprio a lui. Carney ha donato soldi a Booker, O’Rourke, Harris e a Pete Buttigieg. Non essendo un lobbista “registrato”, ha le mani libere e liberi sono i candidati di accettare i suoi soldi. Il flusso di denaro scorre copioso, a prescindere da regole e opportunità.

I SUPER PAC – I super PAC (Political Action Committee) sono gruppi che sulla base di un’infausta sentenza della Corte Suprema del 2010 possono ricevere donazioni illimitate da parte di singoli, corporation, sindacati – e possono spendere in modo altrettanto copioso nelle campagne dei candidati. Praticamente tutti i democratici, con l’eccezione di Joe Biden, hanno a inizio campagna proclamato di non voler accettare i soldi dei PAC. “Il denaro in politica corrompe tutto, controlla tutto”, spiegò un’altra candidata della prima ora, Kirsten Gillibrand. In realtà, anche qui, i fatti non hanno seguito i proclami. Amy Klobuchar ha inaugurato da poco il suo primo super PAC, “Kitchen Table Conversations”. Ha il suo super PAC di riferimento Joe Biden, “Unite the Country”, e così pure Pete Buttigieg, appoggiato da “VotesVote”. I PAC sono particolarmente utili perché spendono copiosamente in spot TV. Per legge, la loro azione non può coordinarsi con quella della campagna ufficiale del candidato, ma anche questa regola è spesso aggirata. Ovvia la loro, importantissima, funzione. Permettono ai candidati di accettare i soldi delle corporation, senza mostrare di accettare i soldi delle corporation.

JOE BIDEN – È – forse era, visti i pessimi risultati nei primi due voti in Iowa e New Hampshire – il candidato dell’establishment democratico. Chiaro quindi che su di lui si siano inizialmente concentrate speranze e dollari. Lo staff di Biden potrebbe essere visto come un vero manuale di interessi privati prestati alla politica. Industria farmaceutica, delle armi, della finanza vi sono ampiamente rappresentate. Steve Ricchetti, che coordina la campagna, è un lobbista. È un lobbista per Ballard Spahr, uno studio legale, e per innumerevoli industrie della sanità, Kenneth Jarin, che fa parte del comitato che sostiene l’avventura presidenziale di Biden. È un lobbista per American Airlines e per diverse società dell’hi-tech Alan Kessler, altro nume tutelare della raccolta fondi di Biden. A dimostrazione poi di come i soldi si dividano, equamente, tra democratici e repubblicani c’è David Cohen, dirigente del gigante della telecomunicazione Comcast che stacca assegni per i repubblicani e che nella sua casa a Philadelphia ha ospitato il lancio della candidatura di Biden.

PETE BUTTIGIEG – È però forse lui il democratico che meglio rappresenta l’intreccio tra politica e interessi privati. Dietro l’apparenza innocente da giovane sindaco dell’Indiana fuori dai giri di Washington, Buttigieg ha messo in piedi una macchina ben oliata di raccolta di finanziamenti elettorali – non importa da dove vengano. Secondo il “Center for Responsive Politics”, il settore finanziario e immobiliare ha contribuito alla campagna di Buttigieg con 4,18 milioni di dollari nel 2019. Le società di tecnologia e comunicazione gli hanno portato 3.6 milioni. Tra chi appoggia individualmente la campagna di Buttigieg ci sono poi una quarantina di miliardari e dirigenti con legami a Google, Microsoft, AT&T, Disney, Comcast, Bank of America e Wells Fargo: tutta gente incontrata da Buttigieg nei suoi anni di lavoro a McKinsey. Uno dei più ardenti sostenitori di Buttigieg è Tony James, vice chairman di Blackstone, la maggiore società di private equity al mondo. James ha ospitato un evento di raccolta fondi per Buttigieg lo scorso giugno. E il candidato ha partecipato ad almeno una cena organizzata da un altro titano del mondo finanziario Usa, Bernard Schwarz, per consacrare proprio Buttigieg come la vera alternativa a Sanders.

Ci sono poi i bundlers, privati che con una donazione minima di 25 mila dollari acquisiscono il diritto di funzionare da collettori di altri finanziamenti. Il sito web di Buttigieg identifica 180 di questi bundlers: il 54 per cento sono legati al settore finanziario e a quello dell’immobiliare. I rapporti del giovane candidato con il mondo della finanza e degli affari risalgono peraltro agli anni da sindaco di South Bend: un’indagine del “Center for Public Integrity” ha rivelato che buona parte delle società che hanno offerto i propri servizi alla città dell’Indiana sono anche stati nella lista dei finanziatori della campagna del sindaco. Buttigieg non ha soltanto ottenuto significativi finanziamenti elettorali da Wall Street e dal Big Business. Si è anche circondato di persone con legami con il mondo della grande finanza. Sonal Shah, assunta come National Policy Director, è stata dirigente a Goldman Sachs e Google. Alla fine corporation e Big Business hanno ottenuto ciò che volevano. Buttigieg ha attenuato alcune delle sue idee più radicali. La proposta iniziale di Medicare for All, non diversa da quella di Sanders, è stata annacquata ed è diventata il Medicare For All Who Want It. E in molte delle ultime interviste Buttigieg ripete il mantra del mondo conservatore e repubblicano: il taglio del debito federale a spese, con ogni probabilità, dei servizi sociali.

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