La Consulta che non fa politica ma è “la casa di tutti“, i processi troppo lunghi che si tramutano “in un anticipo di pena” e la giustizia che deve sempre “esprimere un volto umano”. Marta Cartabia apre le porte della Corte costituzionale e con un’intervista a Repubblica spiega la visione di giustizia che si respira tra “i guardiani della Carta”. A cominciare dall’essenza stessa della Corte che, sottolinea la presidente, “non è un attore politico e non ha un programma politico da realizzare. La sua azione non può essere compresa attraverso chiavi di lettura di tipo politico, come la contrapposizione ‘destra-sinistra”. La prima presidente donna della corta costituzionale ricorda che la Consulta “non agisce mai come l’avversario politico di una parte. La Corte è garante della Costituzione, che è la casa comune di tutti, come diceva Giorgio La Pira“.

Una frase che arriva nella settimana in cui la Consulta ha bocciato l’applicazione retroattiva del divieto di concessione delle misure alternative al carcere per i condannati per reati contro la pubblica amministrazione, previsto dalla legge Spazzacorrotti: “La Corte ha semplicemente applicato uno dei principi fondamentali della civiltà giuridica in materia penale che vieta l’applicazione delle leggi più severe ai fatti commessi prima della loro entrata in vigore”, spiega Cartabia. “La Spazzacorrotti ha inasprito il regime penitenziario per i reati contro la pubblica amministrazione, assimilandoli a quelli di criminalità organizzata e terrorismo, ed è stata applicata anche ai reati commessi prima della sua entrata in vigore”.

La presidente della Consulta considera poi “evidente che i processi troppo lunghi si tramutano in un anticipo di pena anche se l’imputato non è in carcere. Che il processo debba avere una ragionevole durata è un principio di civiltà giuridica scritto nelle norme internazionali ed esplicitato nella Costituzione dal ’99. Sono molti i fattori che concorrono alla lunga durata del processo, alcuni di natura organizzativa, altri legati alla necessità di accuratezza delle prove e alle garanzie per l’imputato. Perciò, risolvere questo problema richiede un’azione su vari fronti e certamente una riflessione pacata di tutti, al di là di ogni steccato ideologico”.

Durante l’intervista la presidente della Corte ha spiegato alcuni fondamentali della Carta, solitamente poco sponsorizzati: “La giustizia – dice – deve sempre esprimere un volto umano. Ciò significa anzitutto – come dice l’articolo 27 della Costituzione – che la pena non deve mai essere contraria al senso di umanità; ma anche che la giustizia deve essere capace di tenere conto e bilanciare le esigenze di tutti: la sicurezza sociale, il bisogno di giustizia delle vittime e lo scopo ultimo della pena che è quello di recuperare, riappacificare, permettere di ricominciare anche a chi ha sbagliato”.

E, a proposito di giustizia giusta, Cartabia aggiunge: “Una giustizia giusta, se vogliamo usare quest’espressione, è una giustizia che permette di guardare al futuro, che non si pietrifica su fatti passati che pure sono indelebili. La giustizia giusta è riconciliazione, non vendetta. Perché la giustizia vendicativa – ce lo insegna la tragedia greca, in particolare l’Orestea di Eschilo – distrugge insieme gli individui e la polis, mentre una giustizia riconciliativa realizza l’armonia sociale. Come insegna la storia di Liz, senza cancellare nulla, bisogna che sia possibile aprire una prospettiva nuova per la singola esistenza individuale e per l’intera comunità”.

Concetti contenuti nella Carta che “tutela tutti, a partire dagli ultimi: poveri, migranti e carcerati”. La presidente della Consulta ha parlato anche molto di carcere che deve “rispecchiare il volto costituzionale della pena” e dare al detenuto una seconda chance. “Negli anni più recenti la Corte sta sviluppando in particolare tre principi: proporzionalità, flessibilità della pena, individualizzazione. La proporzionalità è contro le pene eccessive, l’individualizzazione è contro le pene fisse, la flessibilità contro le pene che non possono essere modificate nel corso dell’esecuzione”. Cartabia ha ricordato come “La Corte si è sempre occupata della condizione dei detenuti e in quest’ultima decisione vengono sviluppati alcuni principi già espressi in un caso analogo nel 2003. Certamente entrare negli istituti di pena ha permesso a noi giudici di comprendere e conoscere meglio la realtà del carcere. Mentre scrivevo quest’ultima sentenza avevo negli occhi il volto, e nelle orecchie le parole di una madre detenuta a Lecce, alla quale era stata negata la detenzione domiciliare perché la figlia aveva superato i dieci anni di età. Nel docufilm, questa donna si rivolgeva alla giudice de Pretis dicendo: “Signor giudice l’età non vuol dire nulla, perché la mia bambina è disabile e non sa nemmeno lavarsi le manine da sola”. Come darle torto? Come negare che la disabilità prolunga il bisogno del rapporto quotidiano con la madre?

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