Cinema

L’immortale, il ritorno di Ciro Di Marzio. Ecco la sua storia che ha un finale con almeno tre colpi di scena…

Non ci voleva un genio per capire che il colpo di scena della terza serie di Gomorra (l’uccisione di Ciro/D’Amore da parte di Genny Savastano) avrebbe avuto un finale diverso. E per scoprirlo, almeno fino a quando non vedremo la quinta serie di Gomorra su Sky, bisogna fare una capatina al cinema

di Davide Turrini

Marco D’Amore, ovviamente, è tornato. Non ci voleva un genio per capire che il colpo di scena della terza serie di Gomorra (l’uccisione di Ciro/D’Amore da parte di Genny Savastano) avrebbe avuto un finale diverso. E per scoprirlo, almeno fino a quando non vedremo la quinta serie di Gomorra su Sky, bisogna fare una capatina al cinema per L’Immortale. Ciro vive. E lotta, come sempre, pro domo sua. La pallottola di Genny gli ha sfiorato a un centimetro il cuore e ci sono ottimi chirurghi nella profonda Napoli camorristica per farlo risorgere. In un amen Ciro Di Marzio è di nuovo al lavoro. Don Aniello gli offre di gestire il traffico di droga a Riga, in Lettonia. Là Ciro diventerà “broker” ma sarà costretto ad oscillare nell’alleanza tra l’elegante e violenta mafia russa che ne attende i servigi, e un’altrettanto feroce congrega criminale locale di tatuati paranazisti che vuole cacciare il russo invasore. L’arrivo sul Baltico, però, rappresenta per Ciro anche l’incontro con l’anziano “magliaro” Bruno: ora al lavoro per lui nonostante fosse l’uomo che lo aveva svezzato a pane e piccoli crimini quando era orfano nella Napoli di fine ottanta e inizio novanta.

Il nodo gordiano del nuovo corso criminale del protagonista verrà tagliato definitivamente in un finale con almeno tre colpi di scena. Pur non strappandoci i capelli per la serie Gomorra non gridiamo nemmeno allo scandalo per questo serio e dignitoso innesto cinematografico dentro al corpo seriale televisivo. Chiaramente lo spin off della serie non poteva che avere mani e piedi legati alla narrazione di personaggi e storie già delineate altrove rispetto al grande schermo. Però L’Immortale azzarda una sintesi oscura e realistica della vita criminale pre e post Gomorra che non è proprio da gettare. Intanto c’è questo ricorso continuo a lunghe sequenze di flashback con Ciro piccino (Giuseppe Aiello) che scorge in Bruno, con relativa iniziazione al furto di autoradio e di sigarette, una traccia paterna mai avuta. Una rappresentazione molto umanizzante e quasi sentimentale (il rapporto di Ciro con Stella, la ragazza di Bruno, è di struggente bellezza) che scorre sciolta e naturale nella regia di D’Amore. Ma non per cogliere leziosamente la poesia dell’innocenza del fanciullo in mezzo alla montante violenza sanguinaria del vicolo, modello Paranza dei bambini.

Il racconto del passato ne L’Immortale serve a ricostruire con acuta compostezza drammaturgica quella frattura psicologica che Ciro nella sua caratterizzazione monodimensionale seriale non era riuscito a mostrare per intero. Poi chiaro in alcune serie dei primi anni novanta ci si prendeva il tempo di “trasferte” dai luoghi/set per approfondire singoli personaggi (vedi sempre il mirabile esempio di ER – Medici in prima linea). Qui è servito un film per ottenere lo stesso risultato, ma è lo stesso. L’importante è che non avendo le velleità da puro action movie, o da sparatutto alla John Wick, L’Immortale non si arenasse nel raccontare la solita stucchevole lotta tra bande rivali per conquistare il mercato della droga. In questo bordone narrativo e nella sua messa in scena, infatti, non ci si discosta granché dai cliché supercollaudati da Gomorra in tv (figuriamoci dai contrasti fotografici significanti nella Gomorra di Garrone): silenziosi primi piani con dilatata attesa delle reazioni altrui; improvvise scariche di concitato dialetto; campi lunghi (e larghi) per mostrare incontri e scambi al vertice; il solito ruolo della “femmena” un po’ accessorio neonatale un po’ spregiudicata cazzimma. Del resto ne L’Immortale, come nella Gomorra tv, si sublima la ferocia criminale nella rappresentazione esteriore dell’atto violento in sé più che nella pozza di sangue su cui indugiare nel dettaglio. Si vede che D’Amore era già stato regista di un paio di episodi della serie. Troppo in là non è comunque andato. Non è uno Scorsese o un Tarantino, non sarebbe stato terreno suo. E già dimostrare di saperlo è scelta di saggia misura. Il film è recitato tutto in dialetto partenopeo con sottotitoli se non quando, paradossalmente, russi e lettoni si fanno capire con i napoletani in italiano.

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