di Diego Battistessa*

Il progetto Missing Migrants dell’Oim riporta che nel 2019 sono stati registrati finora 2.826 decessi di migranti in tutto il mondo. Questo progetto è un follow-up delle morti che si verificano lungo le diverse rotte migratorie e registra quei migranti che muoiono durante il viaggio verso un altro paese, esclude cioè quelli che muoiono o scompaiono dopo aver iniziato una nuova vita nel paese di accoglienza.

Questo significa che una volta che un migrante arriva al paese di destinazione può dirsi al sicuro? Purtroppo la risposta è no. Una ricerca lanciata ad agosto 2019 dall’Istituto di studi internazionali ed europei “Francisco de Vitoria” (dell’Università Carlos III di Madrid) e presentata in questi giorni al Science Po di Parigi pone di manifesto una tragedia silenziosa che stanno vivendo le donne venezuelane che migrano dal paese sudamericano.

Dalle detenzioni arbitrarie allo scambio di cibo per sesso, dall’abbandono scolastico alla mortalità materna, dall’esclusione sociale alla stigmatizzazione, le donne venezuelane pagano un prezzo particolarmente elevato per sopravvivere alla crisi umanitaria complessa che attanaglia il paese, come indicato dall’alto commissario per i diritti umani, Michelle Bachelet, nella sua relazione sulla situazione dei diritti umani in Venezuela presentata il 4 luglio 2019.

Queste condizioni di vita hanno generato una migrazione forzata senza precedenti (si parla di più di 5 milioni di persone previste per fine 2019 dall’Onu) nonostante i rischi e incertezze a cui è soggetto qualsiasi processo migratorio e che sono aggravati dal semplice fatto di essere una donna.

La ricerca, che è nella sua prima fase di sviluppo, raccoglie e presenta i casi morte di donne migranti e rifugiate venezuelane all’estero. Un fenomeno non indagato finora e che fa parte di una crisi migratoria, che ha cambiato la geopolitica della regione latinoamericana, dimostrando che attualmente essere una donna venezuelana in processo migratorio comporta una forte carica discriminatoria che spesso porta come conseguenza alla morte.

Raccolti nella mappa troviamo più di 170 casi in 17 paesi, che corrispondono a più di 200 vittime. Un vero massacro che è il prodotto di un’emergenza con molteplici aspetti come femminicidio, violenza sessuale, tratta e schiavitù, violenza psicologica, prostituzione e sfruttamento del lavoro, stereotipi ipersessualizzati della donna venezuelana, discriminazione, xenofobia e aporofobia.

Colombia (94 casi) e Perù (24 casi) guidano questa classifica agghiacciante, dove ci sono anche stati che si trovano al di fuori della regione latinoamericana – Stati Uniti, Canada, Regno Unito e Spagna. Dopo una prima analisi dei dati, possiamo concludere come ipotesi primaria che le oltre 200 vittime finora rintracciate rappresentino solo la punta dell’iceberg.

Il femminicidio è il caso di morte più ricorrente e possiamo vedere come la situazione di prostituzione alle quale molte donne venezuelane sono costrette a sottoporsi aumenta esponenzialmente i rischi per la loro integrità fisica (questo fenomeno è fortemente legato alla tratta di esseri umani). Il suicidio inizia ad apparire come caso ricorrente: fino a poco tempo fa sconosciuto nella cultura venezuelana, nella mappa troviamo già 9 casi. Si muore anche in naufragi di navi che cercano di attraversare il Mar dei Caraibi, per il freddo mentre si cerca attraversare le montagne o in incidenti stradali percorrendo interi paesi nel processo migratorio.

La mancanza di cure mediche in Venezuela fa sì che alcune donne lascino il Paese in condizioni di salute precarie e muoiano poco dopo aver attraversato il confine con la Colombia. Alcune muoiono assassinate da bande criminali che trafficano benzina e droga sul confine colombiano-venezuelano, altre subiscono incidenti domestici a causa delle condizioni di estrema povertà e precarietà nelle quali sono costrette a vivere nei paesi di accoglienza.

La mappa interattiva delle morti di donne migranti e rifugiate venezuelane ha già suscitato molto interesse, ottenendo in tre mesi più di 33mila visualizzazioni, creando un impatto su istituzioni internazionali, Ong, accademici e attivisti per i diritti umani. In questa prima parte dell’indagine, i dati sono stati ottenuti da fonti secondarie attraverso una ricerca capillare sul web (giornali locali e nazionali dei paesi esaminati), tuttavia è prevista una seconda parte del lavoro in situ (Colombia, Perù e Messico) per poter accedere a fonti di informazione primaria su casi che non sono stati segnalati dai media.

* Docente e ricercatore dell’Istituto di studi Internazionali ed europei “Francisco de Vitoria” – Università Carlos III di Madrid. Latinoamericanista specializzato in Cooperazione Internazionale, Diritti Umani e Migrazioni

www.diegobattistessa.com
Mail: dbattist@inst.uc3m.es
Instagram: diegobattistessa

Articolo Precedente

Disabili, senza fondi il centro milanese per la cura dei denti. Il direttore: “Dama rischia di chiudere”. I pazienti: “Dove andremo?”

next
Articolo Successivo

Violenza sulle donne, a Roma le manifestanti ‘si sono tenute strette’. Perché nessuna sia più un bersaglio

next