Quella ungherese è un modello a livello internazionale. Nel Regno Unito lo Stato ha incassato meno di quanto stimava perché le aziende hanno abbassato la quantità di zuccheri in bevande e snack. In Danimarca è stata abolita perché danneggiava l’economia (con migliaia di posti di lavoro persi) perché i cittadini compravano gli stessi prodotti in Svezia e in Germania. La chiamano “health tax” ma anche “sin tax“, la tassa sul peccato. Cioè quello di soddisfare la gola con il consumo di zuccheri, andando a colpire bibite e merendine. Una proposta avanzata anche in Italia nelle scorse settimane dal ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti per finanziare la scuola (ma anche “attività utili e stili di vita sani”) e sostenuta dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che l’ha definita “praticabile”. Ma oltre a raccogliere le critiche delle opposizioni, l’eventuale introduzione di una “sugar tax” ha creato tensione all’interno della stessa maggioranza con Luigi Di Maio che ha precisato di concordare col premier sulla riduzione delle tasse e non sull’introduzione di nuove.

Nel mondo, però, sono decine Paesi e città (in particolare americane) che hanno deciso di introdurla, per garantire allo Stato maggiori entrate da investire in sanità e progetti educativi e, magari, per alleggerire la spesa sanitaria legata alla cura di diabete, obesità e malattie cardiovascolari. E si tratta di una misura che va a incidere sulle abitudini alimentari dei consumatori, rendendole più sane, e sollecita i produttori a mettere a punto ricette con meno zuccheri. Obesità e diabete sono peraltro sempre più diffusi in Italia, dove un italiano su due è sovrappeso. L’obesità è “la seconda causa evitabile di tumori dopo il fumo” e chi è più a rischio abita a Sud e non è laureato.

Conseguenze sulla salute che si riversano anche sul bilancio dello Stato: nei Paesi occidentali, secondo uno studio realizzato dalla Fondazione Policlinico Tor Vergata nel 2012, i costi legati all’eccesso di peso gravano in media dal 4 al 10 per cento della spesa sanitaria nazionale e il Centro studio ricerca sull’obesità ha calcolato che nel 2016 in Italia l’impatto economico – che include calo della produttività e la mortalità precoce – è stato di 9 miliardi di euro. Guardando al diabete, invece, i malati nel nostro paese sono circa il 5% della popolazione, percentuale quasi raddoppiata negli ultimi trent’anni anche a causa dell’invecchiamento della popolazione, della diagnosi precoce e dell’aumento della sopravvivenza dei malati. Assistenza ambulatoriale, ospedaliera e trattamenti comportano un costo annuale per ogni diabetico di circa 2.800 euro, per un totale di circa 8 miliardi di euro. Spese che potrebbero essere finanziate direttamente, come fatto in altri Paesi, anche dalla tassazione di prodotti alimentari con troppi zuccheri o indirettamente da un minore costo per la collettività. Magari con uno stile di vita più sano e consumi più attenti.

Regno Unito contro obesità e diabete – È stata introdotta ad aprile 2018 in uno dei Paesi con uno dei tassi di obesità più alti del mondo occidentale. L’obiettivo numero uno non era quello di ridurre i consumi, ma di risalire a monte del problema e colpire i produttori, spingendoli a riformulare la composizione dei loro prodotti. La norma infatti fissa una maggiorazione di 18 pence al litro sulle bevande che ogni 100 ml contengono tra i 5 e gli 8 grammi di zucchero, mentre sono 24 i pence al litro per i drink che per la stessa quantità contengono una quantità uguale o superiore a 8 grammi (ad esclusione dei succhi di frutta e verdura senza zuccheri aggiunti e bevande a base di latte). Obesità e diabete colpiscono pesantemente la popolazione britannica, come dimostrano anche i dati di Nhs (National Health System) digital, la “banca dati” della sanità nazionale: oltre un quarto della popolazione è obesa e il 2 per cento degli uomini e il 4 per cento delle donne sono in una condizione di obesità grave. Un problema sanitario che si riflette anche nel numero dei ricoveri ospedalieri: tra il 2015 e il 2017 quelli legati all’obesità sono stati 10.705 (aumentati dell’8%), e tra il 2016 e il 2017 ci sono stati 6.700 interventi di chirurgia bariatrica (dedicata alla riduzione dell’obesità) che nel 77% hanno riguardato pazienti donne. Nel complesso i numeri parlano chiaro: su una popolazione di 66 milioni di persone, il 5,6% ha il diabete (3,7 milioni). Nel Regno Unito inoltre, secondo i dati riportati dalla School of London Hygiene and Tropical medicine, sono 73mila le persone che ogni anno muoiono per cardiopatie e malattie coronariche e 40mila d’infarto. Ma quanti soldi ha portato nelle casse dello Stato la sugar tax? Il Tesoro sperava di incassare 500 milioni di sterline all’anno, traguardo che si è ridotto a 240, visto che il 50% dei produttori ha già riformulato la quantità di zuccheri all’interno di snack e bibite e, dunque, non dovrà pagare. Nei primi quattro mesi dalla sua introduzione a ottobre 2018 sono entrate nelle casse dello Stato 154 milioni di sterline che, scrive il Financial Times, sono andate a finanziare misure contro l’obesità infantile, promozione dello sport e piani di alimentazione più sana a scuola.

Danimarca, dove la “fat tax” ha danneggiato l’economia – “Questa decisione è il risultato dei nostri sforzi per mettere in luce l’impatto negativo della tassa. Il governo danese ha riconosciuto le conseguenze sui lavoratori vicino al confine e sul commercio“. Niels Hald, segretario dell’associazione danese per i soft drink Bryggeriforeningen aveva annunciato così la svolta dell’esecutivo di Copenhagen di mettere la parola fine alla sugar tax nazionale, introdotta 80 anni prima. E’ stata eliminata in due fasi: con una riduzione del 50% a partire da luglio 2013 fino alla totale eliminazione dal 1 gennaio 2014. Eppure la sua storia era iniziata negli anni Trenta e nel 2013 colpiva con un’accisa di 0,22 euro per litro le bevande gassate. L’introito per lo Stato era di 60 milioni di euro l’anno, ma il suo contraltare erano i circa 40 milioni di euro di Iva evasi con la vendita illegale di soft drink. La cancellazione della ‘sugar tax’ danese seguiva di pochi mesi quella sulla fat tax, introdotta dal governo nel 2011. Una tassa che colpiva un nutriente e non direttamente i prodotti, andando così ad aumentare il prezzo di tutti quelli che superavano il 2,3% di grassi. Tra questi anche burro, pizza, carne e latticini. Due tasse su due eliminate perché i consumatori, per abbattere i costi, compravano gli stessi prodotti tassati in Danimarca a prezzi inferiori in Germania e Svezia, con conseguenze pesanti sull’economia e l’occupazione nelle zone di confine. Oltre 1.300 i posti di lavoro andati in fumo secondo il Danish Agriculture and Food Council, senza considerare l’aumento del consumo di benzina e gasolio di produttori e consumatori per vendere e acquistare i prodotti (gli stessi che avrebbero comprato a casa) nei paesi confinanti. Dubbi anche sugli effetti benefici sulla salute: nei primi mesi di introduzione della ‘fat tax’ era stato registrato un calo del 20% dell’acquisto di olio e margarina, ma successivamente non c’erano state flessioni apprezzabili. Soltanto il 7% dei danesi aveva ridotto il consumo di grassi. L’impopolarità, poi, era talmente diffusa da scoraggiare l’introduzione di una nuova tassa su prodotti come yogurt, e ketchup che doveva entrare in vigore a gennaio 2013. E soprattutto, era sotto gli occhi di tutti, specie al confine, la fuga per accaparrarsi gli stessi prodotti a prezzi inferiori.

Ungheria, la tassa sul “junk food” che funziona – Nel 2011 il governo ha introdotto una tassa del 4% su prodotti confezionati e bibite (soft drinks, caramelle, snack salati, condimenti e marmellate) che contengono alti livelli di zucchero e sale. E nei primi quattro anni lo Stato ha incassato 219 milioni di dollari che ha investito nella sanità (nel 2013 corrispondevano all’1,2 della spesa sanitaria complessiva). Gli effetti del provvedimento sono ricaduti sui produttori di “junk food” – il 40 per cento ha ritoccato le ricette in chiave salutista – e sui consumatori, che hanno sviluppato maggiore consapevolezza circa la propria alimentazione col supporto di campagne ad hoc, tanto che il 59 per cento ha diminuito il suo consumo di “cibo spazzatura”. Secondo un report del World Health Organization, dal 7 al 16% dei consumatori hanno scelto prodotti più economici e spesso più sani e dal 5 all’11 per cento hanno cambiato marca dei prodotti o scelto un’alternativa più sana. Lo stesso dossier evidenzia che in Ungheria i tassi di mortalità legati a malattie cardiache, ischemia e cancro erano i più alti del mondo industrializzato e il paese deteneva la più alta media procapite di consumo di sale di tutta l’Europa. Inoltre circa due terzi della popolazione adulti erano obesi o sovrappeso. Tutte ragioni per cui il governo ha implementato nuove misure per migliorare consapevolezza alimentare e relativi consumi.

Francia, Coca cola riduce le bottiglie per non tagliare gli zuccheri (ma gli altri lo fanno) – Introdotta nel 2013, la “sugar tax” è stata modificata nel 2018 con un innalzamento della soglia: le bevande zuccherate che contengono più di 11 grammi di zucchero per 100 ml vengono tassate di 20 euro ogni cento litri. L’obiettivo principale, come per il Regno Unito, è quello di contrastare l’obesità in un paese dove la metà degli adulti è sovrappeso. La Francia ha inoltre deciso di vietare il “free refill” nei ristoranti: un’abitudine mutuata dagli Usa di riempire il proprio bicchiere di bibita gasata senza limiti di quantità. Il primo effetto è stato sui produttori, che hanno deciso di diminuire la quantità di zucchero delle bevande. Schweppes e Lipton Ice Tea hanno tagliato gli zuccheri del 40%, Seven Up e Fanta del 30%. Coca cola, al contrario, ha mantenuto invariata la quantità di zucchero, ma ha ridotto la dimensione di alcune bottiglie in commercio.

Norvegia, il declino di una tassa introdotta del 1922 – Quando è stata introdotta nel 1922, la sugar tax aveva un solo scopo: aumentare le entrate. Poi, nel tempo, si è fatta strada anche l’esigenza di incidere su salute e consumi. A gennaio 2018 il governo l’ha aumenta dell’83% per gli snack e del 42% per le bevande zuccherate. L’obiettivo è quello di ridurre diabete e obesità (nonostante nel paese solo un bambino su sei sia sovrappeso) e ridurre il consumo di zucchero del 12,5% entro il 2021. Ma l’aumento della tassa sta avendo lo stesso effetto della ‘fat tax’ danese: sono tanti, infatti, i norvegesi che attraversano il confine per comprare in Svezia quello che a casa è troppo caro, con relativa perdita di posti di lavoro. Le tante critiche da parte dei consumatori e dell’industria stanno spingendo la politica a ripensare la misura, più orientata a penalizzare prodotti “non salutari” nel loro complesso, tenendo in considerazione più fattori. Secondo alcune proiezioni, però, una eventuale cancellazione della tassa nel 2019 corrisponde a un mancato introito per lo Stato di 150 milioni di euro.

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