Scopro la scrittura di Matteo Fais leggendo la rivista – per così dire – “corsara” Pangea, una specie di congrega, un gruppo di intellettuali sovversivi che raccontano ogni giorno debordando l’inedito, l’anello debole, il dettaglio sconveniente. Sono magnifici: tra loro scopro questo autore sardo, molto giovane, laureato in Filosofia. È un provocatore – la prima cosa che balza agli occhi – ostenta sfrontatamente posizioni estreme, ha un’intelligenza sopra la media. Non teme nulla.

Così lo seguo, nel suo profilo Facebook, realizzo che la sua abitudine a disturbare in realtà è il risultato di un talento usato come un tank. Fais è un intellettuale formato alla corte del nichilismo, di Jean-Paul Sartre e dei naturalisti. Collocabile? No, nemmeno ideologicamente. Potrebbe essere un nazibolscevico, per dirla con Eduard Limonov, un radical chic, un fanatico testa rasata alla black bloc.

Di fatto, ha il coraggio del cane sciolto. Arriva a stroncare Christian Raimo, spaccando in due (simbolicamente, concedetemelo) il parterre dei social, abituato al sussiego. Potrebbe essere solo per questo sbalzato fuori dall’orbita dei salotti che contano, non entrarci mai. Ma a lui non frega un accidenti. Leggo il suo recente romanzo, Storia minima (Robin edizioni, 2018), è la conferma: la deregolamentazione passa spesso attraverso strade minori.

“Minori” oggi equivale a un concetto altissimo, equivale a qualcosa di confinante con l’indipendenza, l’eversione, il nemico del politically correct (definizione ante litteram che non ingenera sussulto oramai e che soprattutto ha fatto il suo tempo), l’eversione che riferisce nuda e cruda la sostanza delle cose, la bellezza priva di ornamento. Però il giro è più stretto, complicato. Meriterebbe di essere letto Matteo Fais, a largo spettro. Racconta una storia minima, cioè la contemporaneità, l’uomo nella sua solitudine. È una storia minima – sì appunto – ed è sempre nuova, è una storia che ha estinto gli orizzonti, di un genere umano ridotto a relazioni da privé, affatto epico.

Fais è sardo (vi annunciavo), eppure il suo stile non ha nulla a che vedere con il regionalismo, nel suo romanzo non c’è il colore di una terra esaltata dal mito, archetipi facili – volendo – da utilizzare. Racconta con un braccio efferato, il linguaggio è osceno e violento. Non c’è un luogo, un nome, dove ricondurre la vicenda di un neo laureato, dentro anni senza una guerra combattuta. Un eroe da imitare, una mostrina di cui ricordarsi, anni dove non c’è odio, né fazioni, al massimo scivolamenti dall’uno all’altro canto, blandi e vili. Piuttosto c’è un tedio pusillanime e liquido; le questioni universali, vita–amore–morte, ridotte a balbetti alcolici e sonnacchiosi, alla noia postmoderna, non borghese, finito persino il tempo della lotta di classe e di categorie sociali moraviane.

Questo racconta Matteo Fais. La sua poetica brutale non scagiona la medietà sazia della contemporaneità, di un Occidente che non ha nostalgie, tragicità dentro cui immolarsi. Così la storia minima diventa la Storia, miseramente.

Il linguaggio di Fais sfiora la misoginia, la più truce, insolente; sembra di leggere l’insensatezza violenta di certa letteratura americana. Il vuoto è la relazione: vuota, spaventosamente squallida l’esistenza inforcata come in un vicolo cieco, l’inversione sbagliata, o infinita e minacciosa, simile a certe strade del nord America, con sul ciglio il deserto e la sottoumanità rada del vagabondo, soggetto astruso, mostruoso nella sua ombra inopportuna, comparsa improvvisamente, nell’identità irriconoscibile. È questa tragicità, postmoderna, domina nella poetica di Fais. Vi invito a leggerlo.

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