di Marco Marmeggi

7-10 maggio 2019

Scendo a Ravenna e prendo un taxi davanti alla stazione. Finalmente si parte per questo giro d’Italia, finalmente portiamo all’isola d’Elba la nostra nuova barca a vela, concessa in comodato d’uso da un armatore solidale all’associazione Diversamente Marinai. Fuori dal finestrino scorrono i caseggiati dei quartieri popolari. Il tassista si gira, mi guarda e mi chiede che ne penso, se queste case mi sembrano edifici poveri e degradati come lo sono le periferie delle città. Rispondo di no, che anzi assomigliano piuttosto a zone residenziali. Lui sorride, soddisfatto. Vedi, mi spiega, Ravenna è una città ricca, ma sono state fatte scelte importanti per fare in modo che si possa stare insieme tutti, al di là di tutto. Annuisco, mi sembra una buona premessa per iniziare un viaggio.

L’odore di mare arriva fino al parcheggio deserto, il cielo è grigio come nei mesi d’autunno, la perturbazione che ha fatto ritardare la nostra partenza è scesa dalle Alpi, lasciando che la Bora investisse questo pezzo di mare e sconvolgesse i piani di una primavera che fatica ancora a farsi sentire. Chiudo la cerniera della cerata e mi avvio verso l’ormeggio, camminando sui pontili galleggianti del Marinara, un immenso porto turistico con più di mille posti barca incolonnati sull’Adriatico. Già, l’Adriatico. Per me un mare nuovo, quasi del tutto sconosciuto.

Prepariamo la barca per tutto il pomeriggio, Blue Moon è un Elan 384, che una coppia di armatori ha ceduto in comodato d’uso alla nostra realtà per realizzare i progetti sociali di quest’anno. Ho preparato un programma di navigazione che non funzionerà, lo so. Ho messo dentro troppe tappe. Non funzionerà soprattutto perché questo maggio è instabile, incomprensibile. Tutti lo sanno, ma nessuno, in fondo, ci crede. Il clima sta cambiando sulla nostra pelle. E’ impressionante e mostruoso, ma è un dato di fatto.

Alle sei di mattina attraversiamo lentamente i lunghi bracci del porto canale. Guardo fuori bordo. Il mare è verde, denso, vischioso, le nuvole sono basse e grige. La prima cosa che noto sono le piattaforme estrattive abbandonate in mezzo al mare, giganteschi ragni di ferro che un tempo succhiavano dal fondale gas e petrolio. Niente di nuovo. Il simbolo del capitalismo industriale. Depredare e fuggire come i ladri, ma, a differenza loro, lasciando i ferri del mestiere direttamente sul posto. Mi viene in mente l’Isola delle Rose del 1968, l’esperimento utopico di creare una Repubblica su una piattaforma artificiale al largo del comune di Rimini. A notte fonda, mentre boliniamo verso Ancona, sotto un cielo nero e senza stelle, piuttosto che repubbliche, questi scheletri arrugginiti in mezzo al mare, ricoperti di luci rosse e bianche, mi fanno immaginare fantastiche bische clandestine con brutali giochi d’azzardo, locali di spaccio e prostituzione sospesi nel nulla, luoghi in cui marinai, pescatori, polpi giganti e sirene si danno appuntamento nelle notti senza luna per bere whisky e fare a cazzotti.

All’alba, appena il sole restituisce forma e dimensione alle cose, tutto cambia e si trasforma. Siamo davanti a Pescara e i monti del Gran Sasso e del comprensorio della Majella sbucano come denti appuntiti, tinti di rosa e completamente innevati. E’ un contrasto netto, tra il mare che è tornato blu e luccicante, quasi estivo, e un paesaggio d’inverno che mette voglia di stare davanti al camino.

Nel tardo pomeriggio, quando ormai il mare è formato e l’acqua sale sulla tuga e irrompe nel pozzetto, decidiamo di ripiegare verso Termoli. Non ce la faremo a passare il Gargano e arrivare a Vieste con questo Scirocco. Quindi poggiamo, quanto basta per fare rotta su un paese di cui nessuno di noi ha mai sentito parlare, trentamila abitanti, costruito su un promontorio molisano, tra il Golfo di Vasto e le isole Tremiti, l’unico approdo di tutta la regione. E’ una sorpresa, una bellezza inaspettata e giuriamo di non dirlo a nessuno, di non fare pubblicità a un posto bello in questo modo. Mentiamo, ovviamente, ma ci piace credere di tenercelo per noi, di non lasciarlo in mano ai fenomeni tipici della decentralizzazione turistica, gli abitanti che lasciano nelle mani delle grandi piattaforme di home sharing i borghi più belli d’Italia.

Ma la vera sorpresa, per gente come noi che viene dall’altra parte d’Italia, sono le isole Tremiti, l’unico arcipelago di isole minori dell’Adriatico, luogo di confino, ai tempi del fascismo, di prigionieri politici illustri, tra tutti Sandro Pertini. Attracchiamo per qualche ora sul molo dell’isola di San Nicola, un pezzo di terra di quarantadue ettari, ma carico di una storia profonda, sormontato da un complesso abbaziale fortificato, il Santuario di Santa Maria a Mare, in parte restaurato, in parte lasciato all’abbandono e completamente libero di essere visitato anche negli anfratti più segreti e nascosti, tra le macerie e i resti di cantieri edili iniziati e mai finiti. In fondo, mi dico mentre al tramonto lasciamo le Tremiti nella nostra scia, in fondo questo fare le cose a metà, l’incompiuto e l’incompleto che caratterizza alcuni borghi italiani, in fondo questo tentativo di governare le cose e, nello stesso tempo, di lasciarle all’abbandono del tempo, alla cura e all’incuria degli individui, mantiene vivo il fascino decadente del passato, la potenza dell’immaginazione, il mistero del segreto.

In fondo, quest’isola di roccia e falesie, sorprende per il non finito dei suoi edifici, per gli orti coltivati tra le mura di sasso e calce, per lo splendore del mare che la circonda, anche lui sempre in divenire, mai stanco di mutare e fare la storia della terra.

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