“In Italia siamo molto esterofili, pensiamo che altrove sia tutto meglio. Con il tempo capisci che non è così”. Elena Pedretti lo dice con tredici anni di esperienza nel Regno Unito: arrivata come giovane veterinaria dopo aver vissuto all’università un’odissea di fondi spariti, tagli alla ricerca, pubblicazioni firmate con i nomi di altri. Elena adesso ha 45 anni e lavora per una clinica di un grande gruppo veterinario: “Qui economicamente è tutto più facile ed esiste la meritocrazia. In Italia, anche se hai talento e voglia di fare, ti segano le gambe”.

La storia di Elena comincia a Parma, alla facoltà di veterinaria. Lavora per pagarsi gli studi, e suo malgrado lì conosce “il baronismo imperante”: favoritismi, parenti, angherie. Arrivata agli esami finali, le viene l’idea di una tesi sperimentale sulle possibili applicazioni cliniche dell’interferone sui gatti: un gruppo di proteine prodotte dalle cellule per difendersi dall’invasione di un virus, utilizzabili, pensa, per curare l’Fiv, il corrispettivo felino dell’Hiv umano. Al progetto si interessa il professor Massimo Amadori, che decide di coinvolgerla nelle sue ricerche: “Ancora oggi mi meraviglia il fatto che decise di affidare il progetto a me, che ero una studentessa senza credenziali e senza nessun parente a garantire per me”. La ricerca si incaglia diverse volte: prima la ditta farmaceutica che finanzia il progetto si ritira, poi esplode il caso mucca pazza, costringendo l’Istituto zooprofilattico di Brescia a dirottare i fondi sull’emergenza. Infine, parte dei fondi universitari “spariscono misteriosamente in meno di 24 ore”, racconta. Comunque, grazie all’aiuto della sua correlatrice e dell’ospedale veterinario di Parma il lavoro va in porto e diventa la sua tesi di laurea: “Facevo su e giù per l’Italia per coinvolgere altri medici: mi sono pagata i viaggi lavorando come cameriera“.

I nostri ricercatori arrivano molto in alto perché in Italia vengono formati benissimo. Ma il problema è dopo

Riflettendoci a distanza di anni, Elena trova che le università italiane siano più che valide, nonostante i tanti, troppi vizi di forma: “I nostri ricercatori arrivano molto in alto perché in Italia vengono formati benissimo. Il problema semmai è dopo: troppi laureati per pochi posti di lavoro e zero fondi alla ricerca. Così si penalizzano i giovani e le idee”. Secondo un report del Cnr, l’Italia spende in ricerca e sviluppo l’1,33% del Pil, di cui solo il 40% viene dal governo: il resto principalmente viene finanziato da imprese, enti no-profit e fondi europei.

Il lavoro di Elena viene pubblicato in una rivista scientifica internazionale: “Quando ho visto che c’era il mio nome, ho pianto. Dovrebbe essere scontato, ma anche la mia correlatrice era scioccata. Anni dopo ho trovato il mio articolo nella biblioteca del Royal College Veterinario di Londra, mi sono emozionata”. Finiti gli studi, trova lavoro in un ospedale veterinario a Torino: comincia con un tirocinio, poi le chiedono di restare. “So di essere stata fortunata, per tanti colleghi c’era solo infinita gavetta: pulivano i tavoli e non potevano toccare niente”. Una grande piaga del sistema italiano, spiega Elena: all’estero il lavoro pagato “in esperienza” o, peggio ancora, “in visibilità” semplicemente non esiste, anzi “sarebbe inconcepibile”.

Nonostante il lavoro, Elena si sente limitata: “Avevo un contratto da libera professionista, non ero assunta come interna alla struttura. E con lo stipendio non ci pagavo granché”. Arriva poi nella sua vita un compagno slovacco, che ha una sorella a Londra. “C’era sempre l’ombra del razzismo: alla fine ci siamo trasferiti di comune accordo, per tante ragioni”. All’inizio cerca lavoro nel nord del Paese: “Tutti richiedono esperienza in Uk, ma se nessuno ti assume, come fai a fare esperienza?”. L’impressione di Elena è che la Gran Bretagna sia sì un Paese multiculturale, ma sempre con un velo di sottile razzismo nell’aria: “Capitava che le persone che venivano alla clinica giravano sui tacchi e uscivano, quando capivano che era italiana”.

Qui non puoi essere troppo diretta: il cliente ha sempre ragione. A volte sembra che dobbiamo vendere farmaci più che curare

Tredici anni dopo, è difficile per lei tracciare un bilancio. Ama il suo lavoro, anche se rispetto all’Italia lo percepisce come più commerciale che medico: “A volte sembra che dobbiamo vendere farmaci, più che curare. Qui non puoi essere troppo diretta: il cliente ha sempre ragione”. Se potesse, dice, tornerebbe in Italia “in un battito di ciglia”, ma poi pensa alle tasse e alle scarse prospettive che avrebbe a casa: “Alla mia età, come faccio a ricominciare? Il pensiero mi terrorizza, ma il mio desiderio è tornare e spero di poterlo fare”. Nel Regno Unito, ammette, è tutto molto più facile dal punto di vista economico: “In tre anni sono stata in grado di avere un mutuo: in Italia neanche vendendo un rene. Qui c’è una mobilità che da noi non esiste, anche a sessant’anni puoi cambiare lavoro”. Dell’Italia le manca la socialità, la qualità della vita, fare due chiacchiere con il barista. “Di base il vero inglese è molto diffidente, i miei amici inglesi li conto sulle dita di una mano”.

Elena dice di guardare con tristezza ai tanti laureati che partono per cercar lavoro all’estero: “Ai ragazzi consiglio sempre di fare un’esperienza fuori, di lasciare per un po’ la sicurezza del nido in Italia. Dovremmo sentirci un po’ più europei. Ma poi spero sempre che tornino. Perché, con qualche senso di colpa, penso: se non la salviamo noi l’Italia, chi lo farà?”.

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