Sono una donna e vivo in Brasile da dieci anni. Sono arrivata qui nel periodo in cui tutto sembrava possibile, quando nei pensieri di molti c’era la certezza che gli anni di buio sarebbero rimasti per sempre nel passato. Quando i figli di domestiche cominciarono ad entrare all’università, quando arrivò il primo uomo nero con i dreadlocks (il cantante Gilberto Gil) al Ministero della Cultura, quando le terre semiaride del Nord Est cominciarono a dotarsi di cisterne per combattere la siccità, quando gli operai cominciarono a prendere l’aero. Quando per la prima volta nella storia del paese, un operaio “terrone” diventò presidente della Repubblica.

La storia la conosciamo tutti. Nel 2010, la società pubblica Petrobras inizia l’esplorazione petrolifera delle riserve sottomarine di petrolio, il pré-sal, fonte di alti profitti per il paese. Nel 2011 il Brasile diventa la sesta economia mondiale. Nel 2014 il Brasile sparisce della mappa della fame stilata dall’Onu. Nello stesso anno, Dilma Rousseff è rieletta Presidenta per poco, in un contesto economico già indebolito dalla crisi economica mondiale e dal crollo delle esportazioni di comodities (materie prime, ndr), uno dei principali pilastri della crescita economia. Contemporaneamente attorno a Petrobras scoppia uno dei più grandi scandali di corruzione della storia, che coinvolge alti responsabili dello Stato e vari attori internazionali. Dal 2015 al 2016, grandi manifestazioni contro la corruzione concentrano la loro protesta sull’impeachment di Dilma Rousseff, che sarà destituita nel 2016 senza che ci fosse nessuna prova di arricchimento illecito. Il suo vice Michel Temer assume il governo e inizia una politica di austerità e repressione, contraria al programma per il quale era stato eletto. Lula è condannato nel 2017 e incarcerato nel 2018, in uno dei processi più rapidi della storia, poco prima dell’inizio della campagna presidenziale in cui era dato per favorito. E’ il 1° gennaio 2019 quando l’ex-capitano dell’esercito, Jaïr Bolsonaro, e il generale Hamilton Mourão assumono la presidenza.

Negli ultimi anni, si sono moltiplicate irregolarità, decisioni arbitrarie prese in splendida normalità al vertice del potere. Nel 2017, secondo la relazione annuale dell’organizzazione Global Witness, il Brasile è il paese ad aver ucciso il più alto numero di difensori di diritti umani, contando 57 assassinati. Tra loro, molti militanti indigeni e agricoltori ammazzati dai poteri del latifondo. E così, il 14 marzo 2018 viene uccisa la consigliera comunale di Rio di Janeiro, Marielle Franco: giovane, nera, lesbica, nata in una favela, da anni denunciava l’azione delle milizie e il genocidio dei giovani neri nelle zone periferiche della città.

Marielle non era molto conosciuta fuori da Rio di Janeiro. Si era candidata per la prima volta alle elezioni comunali nel 2016 con l’etichetta del partito del Psol (Partito socialismo e libertà) e fu, a 36 anni, la quinta candidata più votata. Come lei, altre giovani donne hanno fatto irruzione sulla scena pubblica in questi ultimi anni. Per esempio la giornalista Manuela D’Avila (Partito comunista brasiliano, PCdoB), parlamentare a 23 anni, dal discorso fresco e efficace, l’anno scorso è stata candidata alla vice-presidenza di Fernando Haddad, quando Lula è stato dichiarato ineleggibile: ha fatto tutta la campagna elettorale con la figlia di tre anni in braccio. Ma c’è anche Aurea Carolina, donna nera cresciuta nel mondo dell’hip hop e della street-art, eletta consigliera comunale di Belo Horizonte (quarta città più ricca del Brasile) con un numero record di voti; due anni dopo è stata eletta deputata federale, a soli 35 anni.

Tutte queste donne hanno in comune una vitalità, una maniera di parlare vero, semplice e chiaro, “un’accessibilità” tale che ci si può identificare facilmente. Non fanno solo provare a capire le preoccupazioni della società, ma le vivono da quando sono nate, sulla pelle. E con loro diventa possibile alzare di nuovo la testa, per tante altre donne, ma anche per i giovani delle periferie e tutta quella maggioranza sempre minoritaria nella società brasiliana.

L’assassinio di Marielle è coinciso con la fine di un duro periodo di intense mobilitazioni. Sono state manifestazioni quasi settimanali di denuncia e di pressioni a lungo dei tre ultimi anni. Abbiamo gridato “Não Vai ter Golpe” (Non ci sarà un colpo di Stato), “Fora Temer” (Fuori Temer) e “Lula Livre” (Lula libero); e poi, con l’avvicinarsi della vittoria di Bolsonaro, “Ele não, Ele nunca” (Lui no, lui mai) è diventato il nostro grido di guerra. Quest’ultima onda, l’abbiamo condotta noi donne, più che mai, perché l’essenza del progetto politico di Bolsonaro nega la nostra identità e autonomia politica. O lui, o noi. Non si tratta più di difendere una qualche politica pubblica, o di denunciare tale altra legge, si tratta semplicemente di continuare ad esistere.

Dopo avere visto il colpo di Stato realizzarsi, dopo aver visto Temer sconfitto finire il suo mandato e Lula imprigionato, è caduta Marielle vittima di tre pallottole in testa e una nel collo. E quello che avrebbe potuto distruggerci, dopo anni di lotte vane, ci ha dato una forza smisurata. Perché non ci sarà più una sola Marielle, saremo migliaia. Migliaia che, in questi anni, hanno assunto il loro ruolo politico, hanno costruito il modello di società che vogliono in cui possono decidere dei loro corpi, di studiare, di non morire al lavoro prima di andare in pensione e non lasciarsi più umiliare.

Così ci prepariamo alla nuova era di resistenza che ci impone il governo di Bolsonaro. Questo richiamo di umanità è la nostra arma più potente. Tutta la campagna elettorale e i primi mesi del nuovo governo sono stati una successione di atti violenti e di odio. Come la targa commemorativa di Marielle strappata in piazza pubblica da due parlamentari del PSL (Partito sociale liberale, estrema destra) tra gli applausi di un centinaio di militanti. Come un altro deputato dello stesso partito convinto che bisognerebbe armare i professori per evitare tragedie come quella accaduta nel Comune di Susano (San Paolo) la settimana scorsa, dove due ragazzi, simpatizzanti del presidente, hanno aperto il fuoco sui compagni di classe uccidendo dieci persone. Come, infine, il disprezzo da parte di Bolsonaro per il Carnevale, la festa popolare più importante del Brasile, rappresentato da un video erotico che ha postato lui stesso sui social.

Le ragioni della vittoria di Bolsonaro si leggono chiaramente nella crescita degli atteggiamenti di odio espressi da una vasta parte della popolazione. Atteggiamenti loro stessi, alimentati da anni di umiliazione sociale, violenza di Stato, ingiustizia economica, impunità. Il fenomeno è classico, mondiale e perverso: invece di combattere le radici di questa oppressione, molti cittadini si ribellano verso loro stessi o contro quelli ancora più vulnerabili.

Ricostruire l’umanità, i lacci sociali, l’importanza del collettivo, del vivere insieme, in comune: queste saranno le nostre priorità a partire da ora. E il movimento delle donne, con le bellissime figure che sono nate da duri anni di lotta, ha tutte le capacità per farlo. Un movimento di dignità, di affetto. Il cammino sarà lungo, ma sarà vittorioso.

Da anni lavoro accanto a questi movimenti e con loro ho consolidato la mia lettura politica del mondo. Ora su questo blog voglio raccontarvi queste lotte, queste vittorie di resistenza. Perché queste storie non appaiono mai sui titoli dei giornali, ma sono loro che piano piano fanno in modo che la trasformazione accada.

Dedico questo primo racconto a Marielle e a tutte le Marielle che già lottano, crescono e nascono.

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