Lunedì sera il presidente uscente dell’Algeria, Abdelaziz Bouteflika, appena rientrato dall’ospedale svizzero in cui si trovava per cure, ha annunciato di accogliere le richieste della piazza e di non ricandidarsi per un quinto mandato consecutivo. Le elezioni sono state rinviate a data da destinarsi e la transizione sarà gestita da una Conferenza Nazionale Inclusiva, che dovrà prima stendere una nuova Costituzione, poi sottoporla a referendum popolare e infine indicare una data per nuove elezioni presidenziali. Il tutto, entro dicembre 2019. Nel frattempo, ha annunciato un immediato rimpasto di governo, concretizzato subito con la nomina di un nuovo Primo Ministro, uomo di lunga esperienza.

Quanto accaduto nelle ultime settimane ci porta a qualche ulteriore riflessione. Diciamocelo: dell’Algeria ci eravamo proprio dimenticati. Da quanto tempo non è nell’orizzonte della nostra politica estera? In quella economica c’è sempre stata, beninteso, essendo nostro grande fornitore di gas. Ma a parte questo, il nulla. Eppure si tratta del più grande paese africano per estensione, il decimo al mondo. Eppure affaccia sul Mediterraneo, come la Libia, l’Egitto e la Tunisia. Non ci siamo preoccupati quando le Primavere arabe sono passate sconvolgendo tutta la regione, ma senza coinvolgere gli algerini. Anzi, visti poi gli esiti spesso disastrosi, era parso meglio così. Meglio non rischiare, dopo gli anni bui del terrorismo. Meglio che il paese rimanesse muto e tranquillo, sotto il giogo di Abdelaziz Bouteflika. Andava bene il silenzio di un popolo ancora troppo intimorito dai recenti ricorsi della sanguinosa guerra civile degli anni Novanta.

Ma ora qualcosa è cambiatoDal 22 febbraio la popolazione ha iniziato a scendere in strada contro l’annunciato quinto mandato di Bouteflika, tra l’altro dal 2013 colpito da due ictus che hanno lasciato strascichi pesanti. Tutti. Senza distinzione di appartenenza politica che conti. Erano soprattutto studenti, anche per l’età media molto bassa degli algerini. E tutti insieme a gran voce chiedevano una cosa sola: che Bouteflika non si ripresentasse alle elezioni per la quinta volta. Basta. Lo sapevano che il padre-padrone dell’Algeria, 82 anni, in precarie condizioni di salute dal 2013, in realtà non comandava più da un pezzo: dietro di lui si muovono (tutt’ora) altre forze, i generali che nell’ombra gestiscono il potere. E non vogliono cederlo. Per questo, nonostante il cauto ottimismo a cui ci spinge questa inattesa svolta, c’è da domandarsi se la volontà di cambiamento sia reale da parte delle élite che davvero governano da anni il paese, o se non sia piuttosto un gattopardesco tentativo di sedare le proteste, dando in pasto al popolo il tanto agognato “cambiamento”, per poi guidarlo a proprio piacimento, senza perdere il potere. Staremo a vedere…

Ciò che infatti dovrebbe interessarci davvero, e magari anche un po’ preoccuparci, è il poi. La storia recente di altri paesi ci ha insegnato che spesso, quando ci si concentra solo sul rovesciamento di un regime dispotico, si trascura la parte più importante: la gestione del dopo. Oltre al disastroso esempio libico, ne abbiamo altri.

Penso ad esempio al Burkina Faso, dove nel 2014 folle oceaniche in strada per giorni, con un alto tributo di sangue, avevano costretto alla fuga il presidente-tiranno Balise Compaoré, colui che sedeva sullo scranno più alto fin dall’assassinio del rimpianto leader Thomas Sankara (che lui stesso aveva contribuito ad eliminare, come le inchieste in corso stanno dimostrando). Ebbene: dopo l’euforia di quei giorni, col sapore della “vittoria del popolo”, dopo aver superato un golpe e ottenuto libere elezioni, il paese è tuttavia rapidamente scivolato nell’insicurezza, ha pian piano perso il controllo del territorio, fino ad essere oggi preda di bande di jihadisti sempre più violente e fuori controllo. Come ci ricorda anche la triste vicenda insoluta del nostro connazionale Luca Tacchetto, di cui si sono perse le tracce dal dicembre scorso insieme alla canadese Edith Blais.

La Libia, più di ogni altro esempio, sta lì a dimostrarci i rischi enormi di uno stato fallito. Ma lo stesso Egitto, dove si è preferito restaurare il potere “sicuro” dei generali, piuttosto che lasciarlo in mano alla Fratellanza Musulmana che aveva legittimamente vinto le elezioni, mostra l’altra faccia, l’altro esito non auspicabile delle rivoluzioni incompiute: ripiombare sotto la cappa opprimente del potere gattopardesco di chi cambia tutto per non cambiare niente.

C’è poi la Repubblica Democratica del Congo, le cui recenti elezioni sono un capolavoro pilatesco: lo scaltro presidente uscente, Joseph Kabila, non si è ricandidato, ha lasciato vincere l’oppositore (quello che ha voluto lui, però. non quello designato dal popolo), ma ha saldamente conservato la maggioranza in Parlamento e ora costringe il nuovo “eletto” Tshisekedi a scendere a patti con l’establishment: “Cambiare tutto, perché nulla cambi”. Il caso sta facendo scalpore nel continente e c’è da scommettere che abbia fornito e fornirà più di uno spunto ad altri governanti attaccati alla poltrona.

Infine c’è la Tunisia, l’unico paese in cui la Primavera araba non ha fallito. Il cambio di regime ha funzionato, la democrazia regge, con le sue difficoltà, ma funziona.

Ora, in un Mediterraneo così precario, nessuno si può permettere di correre di nuovo uno di questi rischi. Non ci si consideri dunque soddisfatti della svolta di ieri annunciata da “Bouteflika” (o da chi per lui), come se le promesse indotte dalle pressioni popolari siano già di per sé garanzia di una svolta reale e di una riuscita: da subito si vegli sull’attuazione delle promesse e si lavori incessantemente per garantire un futuro stabile e rispettoso della volontà popolare, con tutti gli strumenti che ci offre la diplomazia internazionale. Non parlo di ingerenze, si badi bene, ma di vigilanza e di sostegno alla volontà popolare. Si studi l’esempio tunisino, si incentivino le molte potenzialità del popolo algerino, si agisca in positivo, ma si agisca. Oggi, non domani. O rischierà di essere tardi.

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