Primo punto: l’Albania non è quella del 1997. Secondo punto: Tirana non è nel caos di Caracas. Terzo punto: la dialettica politica albanese è da molto tempo viziata dal ricorso a insulti, se non a vere e proprie diffamazioni, sorprendenti per chi non è abituato ad ascoltare i protagonisti. Lo scontro tra partiti c’è, è duro, travalica l’aula del Parlamento. Di più, dopo anni di galoppo economico, è tornato a serpeggiare il malcontento tra la popolazione. Ma quello che sta avvenendo in questi giorni al di là dell’Adriatico non è l’incipit di una guerra civile né una sommossa popolare per le libertà fondamentali. Questo per ripristinare le giuste proporzioni. Oggi le opposizioni torneranno a popolare le strade della capitale, dopo l’accesa protesta di sabato. E qualsiasi decisione, come dicono i ben informati, sarà assunta dopo. Perché il 20 febbraio in Albania funge ancora da data spartiacque: in questo giorno del 1991, venne abbattuta la statua del dittatore Enver Hoxha, in piazza Skanderbeg. La fine simbolica di quel comunismo. Un’altra epoca, ma anche un’altra storia.

Il gesto estremo
Il tentativo di assaltare la sede del governo, sabato 16 febbraio, ha portato ad arresti e dimissioni. Il tribunale di Tirana ha confermato la condanna alla detenzione per sei dei 19 manifestanti fermati. E’ stata la Guardia repubblicana, con l’uso di lacrimogeni, ad allontanare chi stava cercando di sfondare le porte del palazzo, dopo aver distrutto una scultura di arte moderna posta all’ingresso. Così è degenerato in violenza il corteo organizzato dalle opposizioni: protestano insieme il Pd, partito guidato da Lulzim Basha, fondato dall’ex premier Sali Berisha ed espressione del centrodestra, e il Movimento socialista per l’integrazione Lsi, di centrosinistra, partito del presidente della Repubblica Ilir Meta. Entrambe le forze politiche chiedono le dimissioni ufficiali dell’attuale primo ministro, Edi Rama, leader del Partito socialista d’Albania, di centrosinistra. Questo come primo passaggio verso la formazione di un governo di transizione in grado di organizzare le elezioni anticipate a giugno, in coincidenza con le amministrative.

Per costringere Rama a lasciare, Pd e Lsi sono arrivati al gesto estremo: 62 deputati hanno annunciato di voler rimettere il mandato. “Non si tratta di semplici dimissioni. Il fatto è che non ci sarà più un Parlamento, non può esistere un Parlamento di facciata”, ha detto Basha. “Rinunciare ai mandati è l’unica soluzione che abbiamo”, gli ha fatto eco Monika Kryemadhi, deputata Lsi e, tra l’altro, moglie del presidente Meta.

La situazione non ha precedenti, nonostante più volte negli ultimi trent’anni ci siano stati casi di boicottaggi parlamentari. All’ipotesi di dimissioni in blocco, comunque, non si era mai giunti. In ogni caso, se volesse, Rama potrebbe anche andare avanti, ha i numeri: la maggioranza ha 78 seggi sui 140 di cui è composta l’Assemblea nazionale. Ma dentro la stessa minoranza, non tutti sono disposti a formalizzare la rinuncia al mandato, come hanno già fatto sapere alcuni esponenti Lsi.

Le accuse: brogli elettorali, corruzione e mafia
A due anni dal voto, le opposizioni chiedono un governo di transizione per traghettare il Paese verso nuove “libere elezioni” e per affrettare l’apertura dei negoziati per l’adesione all’Unione Europea. Ritengono illegittimo l’attuale Parlamento, perché eletto con i “voti del crimine e della mafia”. Così dice il leader del Partito Democratico, Lulzim Basha, per il quale l’Albania è in uno stato d’emergenza causato dalla “cattura del governo in flagrante mentre rubava voti”. Si alimenta il sospetto di inquinamento elettorale in almeno cinque distretti, in particolare in quello di Durazzo e su questo indaga la Procura.

È un dato di fatto che l’Albania viva il male di vedere l’interesse pubblico piegato agli appetiti privati: è il Paese più corrotto di tutta la regione dei Balcani, stando ai dati di Transparency International, ma questo è fenomeno dalle radici antiche. C’è, poi, chi ha ribattezzato il Paese come “Kanabistan”, perché la produzione di marijuana ha subito una impennata al pari, però, della controffensiva.

La criminalità in questo sguazza ed è stata in grado di far diventare l’Albania la porta d’Europa non solo per l’erba ma anche per la cocaina proveniente dal Sud America e, in parte, per l’eroina che giunge dal Medio Oriente. L’ex ministro dell’Interno si è dovuto dimettere in seguito ad uno scandalo giudiziario partito dall’Italia e relativo ai traffici di droga. Anche per questo il Pd accusa Rama di aver trasformato il Paese in un narco-Stato.

Le critiche internazionali: per gli Usa è sabotaggio
A livello internazionale, è boomerang per l’opposizione. Di sabotaggio ha parlato l’ambasciata statunitense a Tirana. “In una sana democrazia – ha sottolineato in una dura nota – si richiede un’opposizione che lavora in modo costruttivo all’interno delle istituzioni costituzionali. Le minacce del Partito democratico, del Movimento socialista per l’Integrazione e degli altri partiti di opposizione minano i fondamentali principi di democrazia e sabotano l’importante progresso che l’Albania ha registrato sia per quanto riguarda lo Stato di diritto che un governo responsabile”. Da qui l’appello ai deputati dell’opposizione per “dimostrare di essere al di sopra dei litigi politici, rifiutare gli inviti a rinunciare ai mandati parlamentari e difendere gli ideali e i principi che sono di una essenziale importanza per ogni forte democrazia”.

Critiche sono arrivate anche dalla delegazione dell’Unione europea a Tirana: la situazione “è controproducente e danneggia il percorso delle riforme” richieste dall’Ue, ha sostenuto l’ambasciatore Luigi Soreca. Gli occhi sono puntati soprattutto sul riordino del settore giudiziario e a giugno i progressi raggiunti passeranno al vaglio di Bruxelles. “Le richieste di alcuni partiti di opposizione di boicottare il Parlamento albanese e la rinuncia dei deputati al loro mandato sono dannose e vanno contro gli sforzi del Paese” di restare sulla via che porta all’Unione europea, ha rincarato la portavoce dell’Ue, Maja Kocijancic.

I sospetti sulla manifestazione e il parallelo con il 2011
Il Pd ha trascorso tre mesi del 2017 a presidiare il palazzo del governo con gazebo. Stavolta, ha mobilitato migliaia di cittadini e, alla vigilia del corteo di sabato, la Polizia ha parlato di rischio infiltrazioni da parte di persone con precedenti penali. L’opposizione ha rivendicato il suo diritto a manifestare, accusando di essere stata vittima di una trappola: dopo le provocazioni – è la sua tesi – le forze dell’ordine avrebbero lasciato che i manifestanti rompessero con fin troppa facilità il cordone di sicurezza.

Dall’altro lato, invece, si è certi che l’assalto al palazzo del governo fosse premeditato, per indurre la Guardia repubblicana ad aprire il fuoco. Una reazione di questa portata avrebbe sì portato a far tremare Rama, ad additarlo alla comunità internazionale come un dittatore. E sarebbe servita anche a pareggiare i conti con quel 21 gennaio 2011 che Tirana non dimentica: durante una manifestazione contro l’allora governo Berisha, gli agenti spararono ad altezza uomo, uccidendo quattro persone. A parti invertite, l’allora maggioranza Pd parlò di tentato golpe da parte di Edi Rama, tale da giustificare il ricorso alle armi. La magistratura ha accertato che si trattò invece di una civile manifestazione, degenerata per colpa di qualcuno.

I veri problemi dell’Albania
Lo scontento non manca dall’altra parte del Canale d’Otranto. Per quanto sia un cancro, l’industria criminale della cannabis funge spesso da ammortizzatore sociale, ma la potenza dei clan diventa sempre più spietata. Dilaga la preoccupazione sulla povertà: il 60 per cento degli albanesi si dice pronto ad andarsene all’estero e, nel dicembre scorso, il 44 per cento di chi ha età compresa tra i 18 e i 45 anni ha affermato di aver già presentato domanda di emigrazione. Lo ha confermato un recente sondaggio dell’Albanian Center for Environmental Governance svolto su 5.600 persone in 18 città. La percezione diffusa è che la situazione economica sia peggiorata rispetto al 2017 e il 58 per cento degli intervistati ha dichiarato di non aver potuto mettere da parte nessun risparmio lo scorso anno, a causa del calo delle entrate. Fin troppo oliato, da tempi remoti, il sistema della corruzione: stando allo stesso sondaggio, per il 50,77 per cento dei cittadini non c’è un tentativo forte di lotta al fenomeno e per il 31,09 per cento si tratta solo di una battaglia da propaganda. I dati Eiu-Imf elaborati dall’Ambasciata italiana confermano che la disoccupazione è tornata a salire nel 2018, attestandosi al 12 per cento a fronte di un tasso dell’8 per cento nell’anno precedente e vicina al 13,5 del 2013. Eppure, la prospettiva macroeconomica resta positiva, con leggera flessione: Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale hanno rivisto al ribasso le proprie previsioni sui tassi di crescita, scendendo sotto al 4 per cento (livello superato lo scorso anno), attestandole intorno al 3,6-3,7 per cento.

Le prospettive politiche
Il premier Edi Rama tira dritto: ha pubblicamente dichiarato di non pensare nemmeno all’ipotesi dimissioni, di non essere obbligato a dare seguito alle richieste della minoranza che, a suo dire, non sarebbe neppure in grado di sfidarlo. Nel sabato della protesta lui era a Valona, storico fortino del centrosinistra da sempre ostile a Berisha. Lì, il giorno dopo, Rama ha trasformato la campagna per le amministrative in una contromanifestazione con migliaia di sostenitori. Nelle scorse ore, il presidente della Repubblica Ilir Meta lo ha pungolato: “E’ il momento che l’opposizione faccia un passo indietro, mentre la maggioranza e il premier ne facciano due, perché devono capire che la responsabilità di governare il Paese è loro”. Rama dovrebbe “dare l’esempio”, insomma. In realtà, un profondo rimpasto di governo, con la sostituzione di otto ministri, c’è già stato a fine dicembre, dopo le proteste studentesche. Che ora Rama possa mollare il timore sembra altamente improbabile. In alternativa, potrebbe raggiungere con il Pd un accordo simile a quello del 2017, quando ha firmato per un governo tecnico ad un mese dalle elezioni. Il ritorno alle urne gli ha consegnato la maggioranza assoluta al Parlamento. E anche facendosi momentaneamente da parte, Rama sa che le opposizioni arrancano a stargli dietro.

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