Il Tesoro è pronto a fare la sua parte in Tim e Alitalia. Due partite delicate destinate a segnare il ritorno in forze dello Stato imprenditore già in parte testato con il Monte dei Paschi di Siena. Per le due aziende, la soluzione riprende del resto il leit motiv che il governo gialloverde ha sfruttato anche in occasione del salvataggio di Banca Carige: “Se si dovessero mettere soldi pubblici, banca Carige deve diventare di proprietà dello Stato. Ovvero deve essere nazionalizzata”. E “in questo modo non ci sarà nessun regalo ai banchieri”, aveva spiegato il vicepremier Luigi Di Maio via Facebook in occasione della presentazione del decreto di salvataggio dell’istituto genovese.

Nel caso di Tim, il governo entrerà in azione via Cassa Depositi e Prestiti, cassaforte dei risparmi postali degli italiani. Il gruppo, controllato dal Tesoro, ha infatti comunicato di essere pronto ad aumentare la sua quota nel capitale dell’ex monopolista pubblico. Attualmente Cdp ha già investito circa 500 milioni in Tim. Con questa somma, nell’aprile 2018, ha acquistato poco meno del 5% del capitale dell’azienda di telefonia. Ma secondo indiscrezioni la quota potrebbe salire fino al 10% attribuendo così allo Stato un ruolo di assoluto rilievo nella partita sul futuro di Tim e sulle possibili nozze con la rivale Open Fiber, controllata da Cassa Depositi e Prestiti e dall’Enel. Del resto, già nell’assemblea dello scorso 4 maggio, Cdp aveva dimostrato di non voler essere un socio passivo e si era trasformata nell’ ago della bilancia dello scontro fra Vivendi e il fondo Elliott, i due maggiori azionisti di Tim. E ora la società guidata da Fabrizio Palermo ha tenuto a precisare che l’investimento nella compagnia “si pone in una logica di continuità con gli obiettivi strategici sottesi all’ingresso nel capitale di Tim deliberato dal consiglio lo scorso 5 aprile. È coerente con la missione istituzionale a supporto delle infrastrutture strategiche nazionali – ha precisato una nota ufficiale – Vuole rappresentare un sostegno al percorso di sviluppo e di creazione di valore, avviato dalla società in un settore di primario interesse per il Paese”. Parole che hanno fatto schizzare in Borsa il titolo Tim (+6,4%).

Situazione diversa nella forma, ma non nella sostanza per il dossier Alitalia. Il Tesoro potrebbe diventare azionista dell’ex compagnia di bandiera all’interno di una nuova società creata ad hoc per il salvataggio e il rilancio del vettore. Il ministero dell’Economia potrebbe convertire in azioni parte del prestito ponte (900 milioni) concesso ad Alitalia. Anche a dispetto del fatto che il finanziamento sia al centro di un’indagine di Bruxelles per aiuti di Stato. Accanto al Tesoro, nell’azionariato della nuova Alitalia dovrebbero esserci poi anche Poste Italiane e le Ferrovie dello Stato, oltre ai partner industriali stranieri Delta e Easyjet. Al momento non è ancora chiaro quali saranno i pesi di tutti i soggetti in gioco, ma è molto probabile che alla fine Roma, direttamente e indirettamente, finisca col detenere più del 50% del capitale di Alitalia.

Per ora c’è una sola certezza: in entrambi i casi, Alitalia e Tim, saranno i cittadini a mettere mano al portafoglio. Nel caso di Tim, il governo ha affidato all’Agcom il ruolo di identificare “adeguate modalità di remunerazione” per gli operatori che stanno effettuando gli investimenti in fibra. Così, secondo le associazioni dei consumatori, nulla esclude che Agcom possa aprire la strada ad aumenti sulle bollette del telefono finalizzati a ripagare investimenti e debiti di Tim e Open Fiber. Quanto ad Alitalia, lo Stato ha finora ampiamente finanziato la ristrutturazione attraverso la cassa integrazione e le iniezioni di liquidità cui lo Stato ha contribuito in vario modo negli anni. E, a questo punto, visto l’ingresso in scena delle Ferrovie, non è escluso che il prezzo del risanamento Alitalia venga in parte pagato dai passeggeri dei treni. In che modo? Attraverso aumenti dei biglietti o magari con la riduzione degli investimenti su vagoni e strada ferrata. Del resto quando la coperta è corta, le soluzioni sono ben poche. Persino per il ritorno dello Stato investitore che, a differenza del passato, deve fare i conti con 2.300 miliardi di debiti.

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