La scelta di una scuola “non convenzionale” rispetto a quella dei suoi amici. L’incontro con due professori universitari che gli hanno “aperto la mente”. E poi gli studi a Pisa, uno stage a Potsdam e il dottorato a Cambridge in Biologia dello sviluppo nel dipartimento di Plant sciences. Un percorso che, a soli 27 anni, ha portato Fabrizio Ticchiarelli a co-firmare un articolo di ricerca sulla rivista Nature. E a entrare nel panorama scientifico internazionale.

“Sono sempre stato affascinato dalla biologia vegetale, perciò quando si è trattato di scegliere le scuole superiori ho deciso di iscrivermi all’istituto tecnico agrario Celso Ulpiani di Ascoli Piceno. È iniziato tutto da lì. E devo molto ai miei genitori. Altri nei loro panni mi avrebbero costretto a frequentare una scuola percepita come più ‘rispettabile’ socialmente. Per fortuna non sono stati così miopi”. Quella decisione, racconta Fabrizio, è stata il primo punto di svolta della sua vita. Poi è arrivata l’inattesa iscrizione alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. “Non ero neanche sicuro di voler andare all’università, è stato l’insegnante di chimica a spronarmi. Il ricordo di quegli anni è una perpetua alternanza fra lezioni, biblioteca e laboratorio, perché alla Sant’Anna la pressione è altissima. Però essere circondato da persone piene di entusiasmo ed estremamente competenti mi ha arricchito molto”.

Le esperienze all’estero mi hanno esposto a una varietà di culture, prospettive e approcci di ricerca difficilmente replicabili in Italia

Fra queste, due docenti cui Fabrizio attribuisce parte del merito dei suoi successi. “L’attuale rettore della scuola Pierdomenico Perata Francesco Licausi, ora professore associato di Fisiologia vegetale all’università di Pisa, hanno avuto un impatto cruciale sulla mia carriera. Le parole non sono sufficienti per spiegare quanto il loro ruolo di modelli e mentori abbia influenzato la mia mentalità”, chiarisce. Un ambiente stimolante, in cui è maturata anche la decisione di continuare gli studi fuori dall’Italia.

“Durante la triennale ho lavorato per 4 mesi al Max Planck Institute of molecular plant physiology a Potsdam, in Germania, e alla fine della specialistica ho trascorso un periodo di 6 mesi al Sainsbury Laboratory dell’università di Cambridge”. È qui che Fabrizio ha deciso di fermarsi per il dottorato. “Queste esperienze mi hanno esposto a una varietà di culture, prospettive e approcci di ricerca difficilmente replicabili in Italia. Lavorare all’estero significa affrontare sfide sempre nuove, crescere sia dal punto di vista umano che professionale”, aggiunge. Senza trascurare alcuni vantaggi pratici. “Quello di Cambridge è un sistema collegiale, in cui l’università e i vari college erogano servizi complementari agli studenti. Ad esempio, oltre alle lezioni tradizionali vengono organizzate delle lezioni di approfondimento in piccoli gruppi di 1-5 persone sotto la supervisione di un esperto in materia”. Cosa vuol dire? Che un 27enne come lui può già fare le prime esperienze di insegnamento. E pure retribuite.

“A differenza dell’Italia qui un dottorando viene pagato 40-50 sterline l’ora per le sue lezioni – spiega -. Ma c’è anche una retta da pagare che arriva a oltre 9mila sterline. Nel caso degli studenti triennali e magistrali, può essere affrontata con una serie di prestiti universitari. E si traduce in debiti personali molto onerosi. Nel caso dei dottorandi in ambito scientifico, invece, viene coperta dai fondi adibiti alla ricerca, i quali spesso garantiscono anche un salario annuale minimo di 14mila sterline”.

Un’altra grande differenza riguarda proprio le risorse destinate all’università. “Cambridge attrae una quantità di fondi esorbitanti, sia attraverso la vincita di bandi di ricerca internazionali che tramite donazioni private. Per esempio, il Sainsbury Laboratory è sponsorizzato da un’associazione caritatevole chiamata Gatsby Foundation, che finanzia ricerca in ambiti di biologia vegetale per diversi milioni di sterline all’anno”. Una struttura d’eccellenza, questa, che nel 2012 ha vinto anche il premio Sterling per l’architettura.

Ho un grande debito verso il sistema educativo italiano, che nel mio caso è stato decisivo

Qui Fabrizio ha raggiunto un traguardo che rappresenta il sogno di molti scienziati. Vedere il suo nome stampato sulla rivista Nature. “L’articolo è frutto della collaborazione fra il gruppo del mio istituto, diretto dalla professoressa Ottoline Leyser, e il gruppo del professor Ning Zheng dell’università di Washington. Riguarda un ormone vegetale, lo strigolattone, che gioca un ruolo sia nella colonizzazione degli ambienti terrestri da parte delle piante, sia nella transizione delle gemme ascellari dallo stato dormiente a quello attivo, e quindi nella crescita dei rami”. Processi che hanno conseguenze dirette nel mondo in cui viviamo. “Si pensi all’impatto paesaggistico che ha l’architettura assunta da una pianta a piena maturità. Dal numero dei rami, poi, dipende anche il numero di fiori e frutti prodotti da una pianta. Cioè la produzione di cibo, nel caso della maggior parte di specie coltivate”.

Lavorare in un team internazionale, però, non è così semplice. “Puoi trovarti a usare il linguaggio dei segni, a parlare mescolando tre lingue diverse o a disegnare per comunicare in modo efficace. O trovarti a dire cose completamente normali nel tuo Paese che però sono estremamente offensive nella cultura del Paese in cui ti trovi”, ci tiene a sottolineare Fabrizio. “In Inghilterra è raro criticare i colleghi. Le osservazioni vanno fatte in modo indiretto e cortese. Viceversa, si rischia di non percepire le loro critiche perché comunicate in modo troppo velato”. Ma sono tanti i lati positivi in un contesto così multiculturale. “Ognuno può insegnarti qualcosa di nuovo, dalla cucina a una lingua. Le persone sono più disponibili ad accettare le stranezze che contraddistinguono ognuno di noi, perché sanno bene come ci si sente a cambiare casa e a lasciarsi famiglia e amici alle spalle”.

Guardando indietro, Fabrizio è sicuro di aver scelto la strada giusta. “Ho un grande debito verso il sistema educativo italiano, che nel mio caso è stato decisivo dal punto di vista formativo e finanziario. Non avrei fatto nulla di tutto ciò senza il supporto di persone grandiose che mi hanno motivato a prendere delle decisioni ambiziose anche quando queste sembravano eccedere le mie capacità”. L’importante, spiega, è “scegliere mentori che abbiano a cuore il tuo sviluppo personale e non ti vedano come uno strumento da sfruttare per i propri scopi”. E se ci fosse l’occasione di tornare? “Sarei felice di restituire un po’ di quello che ho ricevuto, qualora avessi l’opportunità di farlo. Per ora resterò qui a finire l’ultimo anno di dottorato e probabilmente per completare alcuni progetti come post-doc. Dopo vorrei spostarmi ancora, conoscere un altro Paese, imparare qualcosa di nuovo”.

Articolo Precedente

Medico in Germania: “In Italia gli specializzandi non sono visti come una risorsa. Qui faccio tanta pratica”

next
Articolo Successivo

Olanda, ballerino e copywriter. “Ero gay e terrone: i requisiti per una vita di serie C. Qui ho la vita che ho sempre sognato”

next