Una sentenza storica, anche se è arrivata tardi e non assicura alla giustizia tutti i colpevoli dello scempio che si è consumato nella Terra dei fuochi. Nel processo sulla discarica Resit di Giugliano in Campania la Corte d’Appello di Napoli ha condannato l’avvocato e imprenditore Cipriano Chianese, ritenuto l’inventore delle ecomafie per conto del clan dei casalesi, a 18 anni di carcere, due in meno rispetto ai venti inflitti in primo grado per disastro ambientale e traffico illecito di rifiuti con l’aggravante mafiosa. Condannati anche l’imprenditore dei rifiuti Gaetano Cerci e il geometra Alfani Remo (consulente incaricato da Chianese per la redazione di relazioni tecniche). Assolti, però, molti altri imputati. Tra questi l’allora sub commissario all’emergenza rifiuti in Campania Giulio Facchi e altri imprenditori casertani. Nel verdetto nomi e responsabilità portate alla luce per la prima volta negli anni Novanta grazie alla determinazione del poliziotto Roberto Mancini, il primo a indagare sullo sversamento illegale di rifiuti speciali nella Terra dei fuochi. Un’indagine che gli è costata la vita. Proprio a causa del continuo contatto con i rifiuti tossici e radioattivi, nel 2002 gli fu diagnosticato un tumore. È morto nel 2014. Ha fatto in tempo a vedere, nel 2011, la riapertura delle indagini, ostacolate per diversi anni, ma non la sentenza di primo grado, arrivata solo nel 2016.

CONDANNATO IL BROKER DEI RIFIUTI – Cipriano Chianese aveva gestito a lungo l’impianto nel quale vennero fatti confluire rifiuti di provenienza lecita e illecita che, in assenza di controlli adeguati, hanno trasformato quella discarica in una bomba ecologica. Era stato già arrestato nel 1993 (e poi assolto), ma aveva continuato a gestire il traffico illecito dei rifiuti e, l’anno dopo, si era candidato alla Camera con Forza Italia (elezioni perse per pochi voti). Un altro arresto nel 2006 e infine nel 2013, nell’ambito di un’indagine sulla cessione delle quote di una società di trasporti al fratello Francesco, che sarebbe avvenuta attraverso una estorsione aggravata dal metodo mafioso. Nel processo di secondo grado sulla discarica Resit è stato prescritto il reato di avvelenamento, mentre sono stati confermati quello di associazione camorristica e disastro ambientale. Accusa costata due condanne anche a Gaetano Cerci (15 anni), l’imprenditore dei rifiuti ritenuto legato in affari al clan dei Casalesi, in particolare della famiglia Bidognetti e al geometra Remo Alfani (10 anni di reclusione, due anni in meno rispetto al primo grado).

CONFERMATA SOLO IN PARTE LA SENTENZA DI PRIMO GRADO – La sentenza riconosce soprattutto Chianese come responsabile di quel disastro, assolvendo invece altri imprenditori del clan che si occuparono del traffico di rifiuti e i funzionari pubblici di vario livello che firmarono le ordinanze disponendo, a intervalli temporali quasi regolari, la riapertura della discarica. In primis Giulio Facchi, ex sub commissario all’emergenza rifiuti tra il 2000 e il 2004, assolto con formula piena “perché il fatto non costituisce reato”, mentre in primo grado era stato condannato a 5 anni e 6 mesi (la Procura aveva chiesto 30 anni). L’accusa era legata proprio al periodo in cui, per far fronte all’emergenza rifiuti in Campania, la Resit venne fatta riaprire. Sono stati assolti anche i tre imprenditori di casertani Generoso, Raffaele ed Elio Roma, che in primo grado erano stati condannati a 5 anni e mezzo (i primi due) e sei anni.

IL PROCESSO – Il processo d’appello è iniziato nel 2016. A novembre 2017, la Corte d’Assise ha accolto le richieste dei difensori di alcuni imputati, cui la Procura generale non si è opposta, disponendo una nuova perizia che accertasse se fossero effettivamente stati inquinati i suoli sottostanti alla maxi-discarica a cavallo tra le province di Caserta e Napoli. In primo grado la corte d’Assise non aveva mai disposto una propria perizia, affidandosi alle consulenze di parte depositate dal pm Alessandro Milita e dalla difesa degli imputati. Che giungevano a conclusioni opposte: i consulenti del pm confermavano la contaminazione di suoli e delle falde acquifere mettendola in relazione con la mancanza di coibentazione delle pareti della discarica (che negli anni ha provocato l’infiltrazione nel terreno di liquidi tossici prodotti dai rifiuti, come il percolato); secondo le perizie della difesa, invece, non c’erano elementi certi per provare l’inquinamento dei terreni. La perizia chiesta dall’allora presidente del collegio giudicante Domenico Zeuli, firmata dall’ingegnere ambientale Silvia Bonapersona, dal chimico Cesare Rampi e dal geologo ambientale Stefano Davide Murgese, è stata depositata a marzo 2017. E ha confermato la contaminazione. Tra l’altro ancora in atto.  “Le acque meteoriche – hanno scritto i tre professionisti torinesi – continuano a infiltrarsi nel corpo delle discariche generando un percolato che continua a compromettere la qualità dell’acqua di falda”. Nel documento, tra le altre cose, si segnalava che non erano ancora “completate le opere di messa in sicurezza permanente dei rifiuti mediante chiusura delle discariche”. Successivamente alcune udienze sono slittate a causa del cambio alla guida del collegio giudicante, che ha visto Roberto Vescia prendere il posto di Zeuli come presidente della quarta sezione della Corte di assise di appello.

TRA SODDISFAZIONE E AMAREZZA – “Oggi è un giorno importante per lo Stato e principalmente per i cittadini e tutti i giornalisti che hanno lottato e combattuto ogni giorno per arrivare a questa sentenza. Un grazie agli investigatori e alla magistratura napoletana”. Così il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha commentato la sentenza della Corte di Appello di Napoli, ricordando la legge ‘Terramia’ “per la quale siamo alle battute finali e che prevede proprio una parte ad hoc per la bonifica dei siti contaminati”. Ma nella Terra dei fuochi, per bonifica l’ambiente, ci vorranno anni. “Intanto, però, cominciamo a liberarla anche dai criminali che l’hanno avvelenata. Chi inquina deve pagare”, ha commentato il presidente della Commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti (Ecomafie), Stefano Vignaroli. Si chiude una pagina drammatica per la Campania, un capitolo che avrebbe potuto essere interrotto prima, diversi anni fa e con molti morti in meno. Roberto Mancini iniziò nel 1994 a svolgere le prime indagini, che lo portarono a scrivere una preziosa informativa consegnata alla direzione distrettuale antimafia di Napoli. Era il 1996.

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