Un Paese senza governo per tre mesi. La scommessa di trovare una maggioranza in un sistema politico disintegrato. L’opposizione a nuove elezioni dopo soli sei mesi. Il rifiuto di firmare la nomina di un ministro scartando l’ultima opportunità dell’unico governo possibile. Una battaglia istituzionale senza precedenti di cui è stato, senza pentimento, uno dei protagonisti. Anche per il presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 2018 è stato l’anno della “svolta punk“. E la folla – nel Paese a maggioranza populista – in piazza e nei sondaggi sembra apprezzare. Le mani battute in modo insistito nel tempo e nell’intensità nei teatri seguono quelle allungate dalla calca dietro alle transenne sparse di tricolore. Ma anche gli indici di popolarità in crescita proprio nell’ultimo anno. Lo stimano quasi 7 italiani su 10: la figura più popolare in un’Italia populista. Come se la risoluzione di una crisi senza precedenti, il necessario protagonismo, fino ai gesti di rottura avessero messo il professore schivo e conciliante sotto un’altra luce, più viva. Come se, indirettamente e senza volerlo, la politica che si dice del cambiamento avesse cambiato come prima cosa il Quirinale, l’istituzione più alta. L’uscita (obbligata) di Mattarella alla ribalta per duellare i partiti trionfatori, anziché il ruolo nelle quinte scelto nei primi tre anni di mandato, ha finito per dare nuovo vigore alla guardia della Costituzione, la “casa di tutti”, come la chiamava Aldo Moro.

Il dodicesimo presidente ha dovuto mettere in pratica per primo la linea che lui stesso ha tracciato nel discorso della fine del 2017, sessantatré giorni prima delle elezioni politiche che tutto promettevano di cambiare: serve coraggio, aveva detto ai partiti, “perché l’autentica missione della politica consiste proprio nella capacità di misurarsi con le novità, guidando i processi di mutamento“. Futuro, domani, avvenire sono tra le parole più ricorrenti nei discorsi da gennaio a oggi, dicono le tracce sull’archivio dell’Ansa. Così l’uomo del Novecento si è visto piombare davanti tutte insieme le sfide irrisolte del Duemila, il giurista democristiano è stato quello che per primo ha dovuto orientarsi nel mondo nuovo, il testimone della Prima Repubblica ha dato il battesimo a quella che potrebbe essere davvero la Terza.

Il codice d’ingresso che ha usato è stata la Costituzione, unico alfabeto attraverso il quale si esprime: ogni parola è pronunciata e ogni gesto è compiuto seguendo il filo della Carta. A ragione o torto, tra possibili errori e mugugni sicuri. Attraverso la Costituzione ha concesso quelle 12 settimane ai partiti per chiudere la fiera delle promesse della campagna elettorale, “scongelare i voti“, tentare di risolvere una crisi di governo inedita ed evitare di gettare il voto dei cittadini. Fino all’alleanza di governo tra M5s e Lega, la più inaspettata.

Attraverso la Costituzione ha anche preso la decisione più drammatica, probabilmente dell’intero mandato: il rifiuto di firmare la nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia. Trattenuto a fatica l’umore nero, essiccato il tono da ogni retorica (“Nelle prossime ore assumerò una iniziativa” fu l’ultima scheletrica frase), Mattarella quella sera ha voluto spiegare agli italiani con un discorso lungo 7 minuti e 24 secondi quali obblighi l’avevano costretto a quella decisione dirompente. Tra gli altri, il fatto che “il presidente della Repubblica svolge un ruolo di garanzia che non ha mai subito né può subire limitazioni“. Un arbitro, non un notaio. Lo aveva detto altre volte: quella sera di fine maggio, però, partiti ed elettori lo hanno dovuto ascoltare senza la solita distrazione. Mattarella si fece carico di un rischio altissimo: “per stare alle regole” – fu una delle contestazioni – il Paese era di nuovo sull’orlo del caos, cioè il contrario degli auspici presidenziali. Però “nessuno può affermare che io abbia ostacolato la formazione del governo che viene chiamato del cambiamento”. Anticipava le accuse che gli furono recapitate poche ore dopo: Luigi Di Maio, arringando la folla in piazza e in televisione, urlò la parola impeachment che la Costituzione traduce con “alto tradimento”. Mattarella avvolse quelle parole nel gelo e le archiviò per quello che erano: quattro giorni dopo, nelle sue mani, Di Maio giurava da ministro.

Se con Renzi erano serviti diversi interventi “persuasivi” a voce bassa (sull’abuso di decreti, per esempio), il “nuovo” Mattarella ha cambiato tono in pubblico perché è cambiato l’orecchio. Davanti alla “muscolatura” comunicativa e istituzionale dei due partiti movimentisti, di piazza e di governo, il capo dello Stato quella sera ha inteso tutelare la stessa istituzione che nei mesi a venire ha accompagnato tutto ciò che il governo gialloverde è riuscito a fare: il decreto Sicurezza, la legge Anticorruzione, la manovra “del popolo”. “E’ l’angelo custode del governo” ha detto pochi giorni fa Di Maio.

Il gesto di rottura di Mattarella sembrava il gorgo finale in cui era finito l’intero sistema politico e istituzionale. Invece ha finito per rivitalizzare il Quirinale non come il luogo che fa e disfa, ma come l’asse d’acciaio dello Stato. Non un cascame del passato, una ridotta del vecchio regime, appendice formale al protocollo, ma una garanzia per tutti i cittadini, anche ora che è arrivato il futuro, anche ora che il vento è cambiato: l’essenza dell’articolo 1, la sovranità al popolo nelle forme e nei limiti della Carta. “La Storia – ha detto qualche settimana fa – insegna che l’esercizio del potere può provocare il rischio di fare inebriare, di perderne il senso del servizio e di fare invece acquisire il senso del dominio nell’esercizio del potere”. Tra gli antidoti ha elencato la separazione dei poteri (che venera). E ha aggiunto una qualità inaudita in politica: l’autoironia.

Una garanzia anche per il governo. “L’angelo custode” ha seguito mese dopo mese il dialogo faticoso dell’esecutivo (ai cui vertici ci sono solo esordienti) con l’Unione Europea: da una parte si è raccomandato più volte sul debito, dall’altra si è presentato implicitamente come garanzia. Nel frattempo non ha mai smesso di criticare l’Europa per com’è fatta oggi. A febbraio, in Portogallo, invitò i Paesi del Mediterraneo “a far sentire la nostra voce a Bruxelles” perché è quello, il Sud del continente, “il luogo della sfida globale di oggi”. A novembre, dalla Svezia, ribadì che l’Ue non può essere solo “un comitato d’affari“. Da quasi 3 anni denuncia la solitudine in cui si trova l’Italia mentre affronta i flussi migratori.

La versione di Mattarella è che i migranti sono i “nuovi schiavi“, che le paure e le ansie sono “comprensibili“, ma la risposta non è chiudere i confini e non è per ideologia. La “narrazione sovranista” propone “soluzioni inattuabili“: è una “illusione” pensare che si possa governare il fenomeno dell’immigrazione da soli. Da mesi sostiene la stessa cosa anche il presidente della Camera Roberto Fico, che spinge per l’adesione al Global Compact. Non è l’unico asse tra Quirinale e Montecitorio: è accaduto anche a luglio per la crisi della nave Diciotti, sbloccata dopo una telefonata del Quirinale al presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Chiesero a Fico cosa ne pensasse: “Gli interventi del presidente sono sempre positivi” rispose. E’ su questo tema che si fa avanti l’altra critica a Mattarella: gli appelli di associazioni e ong a non firmare il decreto Sicurezza, rimasti lettera morta. Il Quirinale rilasciò la legge dopo un esame di ragguardevole durata (dieci giorni). Il testo tornò a Palazzo Chigi accompagnato da una lettera: “Ricordate gli obblighi della Costituzione”. Il ministro dell’Interno replicò come gli riesce fare: “Ciapa lì e porta a ca’“.

La “comunità” per Mattarella è il modulo da ripetere nella società, nella politica, in Europa: i problemi si risolvono insieme. “Il tessuto solidale di un Paese e al suo interno di ciascuna comunità – ha ripetuto quest’anno – è il bene comune prezioso e questo va sempre considerato a partire da chi ha responsabilità pubbliche“. Una contronarrazione. “Il veleno del razzismo continua a insinuarsi nelle fratture della società”, disse questa estate, tocca alla politica “il coraggio, se necessario, di contraddire opinioni diffuse”. Riusciremo a rendere il mondo migliore, ha aggiunto alcune settimane dopo, “se terremo unita la nostra comunità, se renderemo onore alla parola uguaglianza scritta nella nostra Costituzione, se allargheremo quest’asse di libertà, se metteremo al bando, in concreto, giorno per giorno, definitivamente, la violenza fisica e quella verbale, l’odio, l’intolleranza, le discriminazioni“.

In una parola, i fascismi. L’inquilino del Palazzo del Quirinale rinnova nel Duemila un altro principio repubblicano. Ogni volta che Mattarella parla del fascismo è senza appello: è “inaccettabile” l’idea secondo cui “il fascismo ebbe dei meriti“, i provvedimenti “disumani” come le leggi razziali “non furono deviazioni o episodi rispetto al modo di pensare del fascismo, ma una sua diretta e inevitabile conseguenza“. L’atto politico che ha aperto il 2018 del capo dello Stato è stata la nomina a senatrice a vita di Liliana Segre. Quello che lo chiude è la consegna dell’ordine al merito a cittadini che hanno agito per la solidarietà, la carità, la lotta alle discriminazioni, la legalità, il senso civico.

La narrazione autonoma, il controcanto, non è una novità per Mattarella. Accadde anche con Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio dell’epoca continuava a dire che andava tutto alla grande, il capo dello Stato ricordava la ricostruzione post-terremoto, la disoccupazione, la corruzione. Oggi il presidente della Repubblica parla del clima come “sfida-chiave da affrontare subito”, della ricostruzione del ponte di Genova come “test di credibilità internazionale” per il Paese, del lavoro ancora come “vera priorità” perché la disoccupazione, e in particolare tra i giovani, è “insostenibile“. Ha dovuto usare le stesse parole un anno fa, e l’anno prima, e anche l’anno prima ancora. Sarà costretto a ripeterle, probabilmente, anche stasera.

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