Il Servizio sanitario nazionale compie 40 anni. Ma il suo stato di salute non è certo dei migliori. È affetto da un male profondo fatto di lunghe liste d’attesa, spesa pubblica in flessione, posti letto in calo, differenze fra Nord e Sud del Paese, personale sottodimensionato e sempre più sotto pressione. Non a caso il 2019 si aprirà con la minaccia di due giornate di sciopero della dirigenza medica, veterinaria e sanitaria del Servizio sanitario nazionale che giudicano insufficienti gli ultimi interventi del governo. Ma la posta in gioco oggi è ben più alta: senza una seria programmazione si rischia infatti di mandare a gambe all’aria il sistema sanitario universale, che garantisce prestazioni sanitarie a tutti i cittadini. Magari a favore di un sistema misto che, utilizzando detrazioni fiscali in favore di fondi e compagnie assicurative, finirebbe per aumentare le disuguaglianze nella popolazione.

“Serve patto generazionale politico e sociale”
“Se non si mettono le basi per un patto generazionale politico e sociale finalizzato a mantenere la sanità pubblica, il sistema non potrà rimanere piedi” spiega Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che dal 2013 porta avanti la campagna #salviamoSSN e monitora con un osservatorio indipendente la sanità italiana. Rischiamo di fatto un passo indietro di 40 anni. “Prima del ’78, l’assistenza veniva erogata attraverso le mutue private con pacchetti di prestazioni tanto più ricchi quanto più remunerata era la professione esercitata. Ne restavano fuori quindi le donne e i disoccupati” ricorda Cartabellotta che evidenzia come quel meccanismo risultò fallimentare sia sotto il profilo dell’equità sociale che sotto quello economico. “Non solo si lasciava al di fuori dell’assistenza una fetta importante della popolazione, ma le mutue finirono anche per fallire perché aumentarono progressivamente quantità e qualità delle prestazioni, troppo onerose rispetto ai contributi versati. Dalle loro ceneri nacque il sistema sanitario universale che, ancora oggi, con i suoi mille difetti, resta invidiato in tutto il mondo” aggiunge Cartabellotta, che, anche da medico, ha toccato con mano pregi e difetti della sanità italiana.

Blocco del personale e tagli per rimettere in sesto conti della Regioni
In dieci anni 37 miliardi di tagli hanno messo a dura prova la sanità pubblica italiana. Si tratta di una cifra enorme se confrontata con il fabbisogno nazionale annuo che ammonta a 115 miliardi. “Dal 2010 al 2019 il settore ha subito una sforbiciata da 37 miliardi. Sulla carta si è registrato in media un aumento dell’1%, ma la verità è che l’incremento è stato ampiamente eroso dall’inflazione” prosegue Cartabellotta, ricordando come contemporaneamente sono scattati i piani di rientro per le Regioni che non erano in regola sui conti della sanità. “Nel 2008 il passivo della sanità sfiorava i 10 miliardi – riprende Cartabellotta -. Oggi quasi tutte le Regioni hanno rimesso a posto i conti. Ma il prezzo pagato dai cittadini è stato molto elevato perché si è deciso di agire sul blocco di personale e sugli investimenti in innovazione con il risultato che il servizio è qualitativamente peggiorato”.

Intanto le liste d’attesa si sono allungate e il Pronto soccorso è andato in tilt. “Una programmazione inadeguata e il blocco delle assunzioni hanno determinato una carenza di personale, oggi demotivato e stanco. Questo è vero sia per i medici che per gli infermieri il cui numero è nettamente inferiore alle necessità – prosegue il presidente della Fondazione –. Oggi un giovane medico che entra nel mondo del lavoro affianca il collega più giovane che ha almeno 50 anni affrontando una domanda di prestazioni in progressivo aumento. Considerati turni e riposi obbligati, si è arrivati ad una gestione del tempo/uomo tale da spingere alcuni gestori ad adottare il minutaggio, definendo il tempo massimo che si riesce dedicare ad ogni singolo paziente peraltro con differenze fra le diverse aree del Paese”. Una situazione surreale resa ancora più delicata e al tempo stesso esplosiva dalle lunghe liste d’attesa su cui difficilmente potrà incidere l’ultimo intervento del Governo: “che ha innanzitutto puntato sulla messa a punto di trasparenti sistemi di prenotazione” quando poi mancano medici e infermieri” chiarisce Cartabellotta. Quanto poi al Pronto soccorso “L’affollamento generato dalla presenza di numerosi codici bianchi e l’aumento della permanenza, legata anche all’età e alle condizioni sociali dei pazienti, ha generato un sovraccarico di difficile gestione” spiega precisando che la situazione è migliore nelle Regioni che sono riuscite ad attuare un’assistenza socio-sanitaria in cui il paziente può “attardarsi”, ma continuare ad essere monitorato.

Esodo pensionistico, ma solo 900 borse di studio per specializzazioni
Nel giro di un paio di anni andranno in pensione migliaia di medici di famiglia e ospedalieri. A fronte di questo esodo massiccio, il governo è riuscito per ora a stanziare fondi per 900 borse di studio di specializzazione e circa 260 per i nuovi medici di famiglia. “È un inizio, ma si tratta di un intervento decisamente insufficiente a gestire la problematica. In Italia i medici ci sono, ma manca la formazione specialistica che consente l’accesso alla professione. Su questo punto bisognerà agire rapidamente” precisa il presidente della Fondazione Gimbe.

Quanto ai nuovi livelli essenziali di assistenza, restano ancora sulla carta in buona parte del Paese. “L’ex ministro Beatrice Lorenzin ha avuto il merito di rivedere finalmente l’elenco delle prestazioni che il servizio nazionale deve poter offrire ai cittadini – riprende Cartabellotta – Tuttavia nella realtà manca ancora oggi il tariffario. Di conseguenza i Lea sono una realtà solo in alcune Regioni che sono intervenute con fondi propri. Non vorremo mai che il nuovo esecutivo dimentichi di definire il tariffario che Regioni e cittadini attendono” aggiunge ricordando le profonde diversità nelle prestazioni regionali abbiano dato vita ad un turismo sanitario da un’area all’altra del Paese.

Manca programmazione chiave di volta per salvare il Ssn
Ma allora forse sarebbe più efficiente un sistema misto con fondi e assicurazioni? “Assolutamente no. È ampiamente provato che un euro speso nella sanità privata rende meno che un euro speso in quella pubblica. Fondi e assicurazioni costano – aggiunge -. L’Ania, l’associazione che riunisce le compagnie del Paese, ha stimato che su 100 euro investiti in polizza sanitaria il 25% se ne va in costi di gestione cui si deve anche aggiungere un utile per la società. Si tratta di costi che, essendo defiscalizzati, vengono scaricati sulla finanza pubblica. Detta in altri termini tutti pagheremmo per offrire un servizio a pochi. Diverso è invece se si immagina un sistema che sia solo integrativo delle prestazioni, ma certamente non sostitutivo”.

Una sana programmazione è la chiave di volta per salvare il servizio sanitario nazionale. “È quello che è mancato nell’ultimo decennio e che ci ha portati fino a questo punto – conclude Cartabellotta-. È ora di voltare pagina introducendo correttivi importanti come quello che vuole i Livelli essenziali di assistenza agganciati ai criteri di riparto delle risorse stanziate per la sanità pubblica”. Si tratterebbe di un primo importante passo per migliorare la qualità del servizio sanitario che oggi è ancora declinato in ventuno modi diversi nelle Regioni italiane.

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