Giornata pesante a Wall Street in attesa delle decisioni della Federal Reserve sui tassi di interesse. Il Dow Jones ha chiuso perdendo il 2,09%, il Nasdaq ha ceduto il 2,27% mentre lo S&P 500 ha lasciato sul terreno il 2,08%. Ad agitare gli investitori è stato l’impatto delle decisioni della Fed su un’economia americana che traballa fra la guerra commerciale, le tensioni politiche e geopolitiche e un possibile shutdown del governo. Guarda e attende il Federal Open Market Committee il presidente Donald Trump. Alla vigilia della due giorni di riunione, il tycoon su Twitter torna a criticare la banca centrale: ”E’ incredibile che la Fed consideri un altro aumento dei tassi di interesse con un dollaro molto forte, virtualmente no inflazione, il mondo fuori dagli Stati Uniti che esplode, Parigi che brucia e la Cina che frena”, ha twittato il presidente Usa. Ancora più diretto il falco consigliere del presidente, Peter Navarro: la banca centrale sta pesando sui listini, mercoledì non dovrebbe alzare il costo del denaro.

Un aumento dei tassi di interesse di un quarto di punto alla riunione di martedì e mercoledì è dato per scontato: con il quarto rialzo dell’anno e il nono dal 2015, il costo del denaro probabilmente salirà in una forchetta fra il 2,25% e il 2,5%. A essere contrario a una stretta non è solo Trump: il ‘re dei bond’, l’amministratore delegato di DoubleLine Capital, Jeffrey Gundlach ritiene che la Fed non dovrebbe toccare i tassi.

Gli ultimi dati in arrivo dagli Usa hanno visto le richieste settimanali di sussidi di disoccupazione calare più del previsto nella settimana terminata l’8 dicembre, superando le attese degli analisti e portandosi sul livello più basso da quasi tre mesi. La produzione industriale è intanto tornata a salire a novembre, registrando un +0,6% a sua volta migliore delle aspettative. Mentre l’inflazione nello stesso mese è scivolata al 2,2% a novembre su base annua, dal 2,5% del mese precedente, con una variazione nulla nei confronti di ottobre.

Questo mente l’altra superpotenza mondiale, la Cina – con la quale Washington ha avviato da mesi un braccio di ferro a tema commerciale che nell’ultima settimana è sembrato comunque alleggerirsi – mostra segni di difficoltà. Le cifre diffuse da Pechino nei giorni scorsi, sempre con riferimento a novembre, vedono la produzione industriale muoversi col tasso di crescita più basso in tre anni, sul +5,4% annuo. Mentre le vendite al dettaglio hanno messo a segno un +8,1% che rappresenta l’espansione più lenta addirittura dal 2003.

Per Jerome Powell il quadro che si presenta è un dilemma: se da un lato i sui compiti sono la stabilità dei prezzi e la massima occupazione, dall’altra parte il presidente della Federal Reserve deve difendere l’indipendenza della banca centrale dalla politica, e quindi da Trump. Un equilibrio non facile da centrare alla luce delle incertezze esistenti e dell’andamento dei mercati azionari. Wall Street resta sotto forte pressione, con il Dow Jones e lo S&P 500 che stanno sperimentando il loro anno peggiore dal 2008 nonostante i dividendi record distribuiti dalle società dello S&P 500: 421 miliardi di dollari dall’inizio dell’anno.

A confermare le difficoltà degli indici sono le indiscrezioni sui bonus di Wall Street: le banche dovrebbero distribuirne di più bassi del previsto, con aumenti a una sola cifra. E i mercati sotto pressione attendono indicazioni e rassicurazioni dalla Fed. Un aumento dei tassi mercoledì accompagnato però da parole da colomba di Powell potrebbe innescare lo sperato e atteso ‘rally’ di Natale. Per farlo il presidente della Fed dovrebbe annunciare, anche velatamente, la possibilità che la Fed riveda al ribasso il numero dei rialzi previsti nel 2019. Gli analisti ne stimano due di strette, anche se alcuni ne intravedono solo uno. La parola è a Powell.

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