Alla fine di ogni anno si avverte sempre la necessità di gettarsi alle spalle il tempo passato. Questa volta prevale invece il desiderio di misurare dall’alto la profondità del precipizio nel quale ci stiamo inabissando come Paese, consapevolmente e colpevolmente. Si tocca ogni giorno con mano il terrore per l’ondata migratoria che si ritiene stia minacciando il benessere lasciato dai nostri padri. Ma nello stesso tempo si respira l’assuefatta, collettiva stanchezza di fronte al dramma dei profughi: ricordi di tragedie avvenute il giorno prima, il giorno dopo non trovano spazio per un atomo di compassione. Il 3 ottobre 2013 il naufragio di Lampedusa. Sono passati appena cinque anni e nessuna strage in mare fa più notizia, come non lo fa la morte di una migrante mentre tenta di oltrepassare il confine francese o di un giovane carbonizzato nel rogo di una baraccopoli. Ogni evento scioccante diluisce la sua tragicità in un trafiletto che diventa parte della nostra normalità quotidiana. Abbiamo globalizzato tutto: il panico verso la presenza dello straniero così come l’indifferenza nei confronti del suo dolore. E perduto irrimediabilmente pezzi di umanità.

Eppure le migrazioni ci sono sempre state. Questa volta, però, siamo di fronte a un inedito. Non è più solo questione di gente che fluttua da un punto all’altro del pianeta alla ricerca di nuove possibilità, bensì la narrazione di un’umanità in “esubero” che non trova il suo posto e di cui aveva profetizzato Zygmunt Bauman. Gente fuori luogo, irritante e fastidiosa. Una massa del pianeta al di fuori di ogni controllo e priva di una terra di pace da calpestare.

Mentre noi ci preoccupiamo di aprire l’ombrello, ripararci dietro un cornicione, cercare riparo dentro a un portone, fuori sta diluviando con un’intensità mai vista. Potremo maledire la pioggia, ma nulla le vieterà di travolgerci. La disperazione della massa non sarà fermata da un muro, o da una striscia di mare. Inutile continuare a distinguere richiedenti asilo da migranti economici, tra quanti scappano per calamità naturali e chi si allontana dalle bestialità belliche. La questione sta diventando una sola, ed è rappresentata dalla forbice sempre più estesa che divide la “comunità fortezza” di un’umanità grassa e felice, e un’altra dannata, sprofondata nella povertà assoluta, priva di tutto, anche di confini. C’è una frazione di mondo che mangia, consuma e spreca, e un’altra che resta fuori dalla tavola imbandita dal ricco Epulone. E questa piaga della diseguaglianza non è più esterna a noi, ma innestata nel nostro corpo sociale, nelle nostre città, nel cuore delle periferie. Dove scopriamo sentimenti nuovi e sconosciuti, che si traducono in una profonda ostilità verso l’ultimo arrivato.

Per spiegarla si usa ricordare la fiaba che Jean de La Fontaine riprende da Esopo: la storia della lepre costretta a scappare davanti a ogni animale e angosciata dal pensiero di vivere sotto costante paura. Fino ad accorgersi di alcune ranocchie che, impaurite dalla sua presenza si gettano nell’acqua. “Allora c’è qualcuno che sta peggio di me! – pensa la lepre”. Tanti poveri urbani sono oggi come la lepre, e alla vista di un migrante in assoluta precarietà tirano un sospiro di sollievo nello scoprire che loro non sono più i vessati, i derisi, gli ultimi, bensì i penultimi. E mantenere l’ultimo in coda alla fila garantisce la loro “penultimità” da lepre. Così che spesso, in insospettabili quartieri, fiorisce d’improssivo la violenza, la rabbia, il razzismo, e con esso il consenso verso chi, alzando la voce, afferma “prima le lepri!”.

Lo abbiamo già visto: la presenza di una baraccopoli, in alcuni contesti periferici, rappresenta una vera e propria àncora di salvezza, perché per i suoi abitanti tutto sembra diventare meno pesante, meno umiliante e più accettabile. “Non siamo più gli ultimi”, è la scoperta salvifica. A condizione però che i veri ultimi restino tali. Ma il migrante, con il suo nomadismo, ci ricorda anche un’altra cosa. Che tutto si muove e niente è sicuro, neanche la nostra ricchezza che fonda il nostro status. Forze antiche e incontrollabili possono in qualsiasi momento venire a turbare i nostri sonni. Questo ci consegna insicurezza e ci attanglia nella paura. E l’aver paura ci fa scoprire la verità della nostra fragilità.

La via d’uscita è una sola, sarà questa la sfida del nuovo anno. Lottare contro la diseguaglianza, abbattere i muri, credere che esiste una sola umanità e avere il coraggio di gridarlo sopra i tetti. Non sono ammesse scorciatoie: o creeremo solidarietà attorno a noi o sprofonderemo nella notte della paura dove tutti, nessuno escluso, pagherà quel conto salato che solo l’egoismo umano sa esigere con gli interessi.

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