Vicenza. Poi Pesaro e Urbino, Bergamo e Pistoia. Sono le città italiane con il più alto livello di integrazione, secondo il Rapporto sulla situazione sociale del paese redatto dal Censis e presentato oggi a Roma. Scarsa la partecipazione delle città del centro (oltre Pesaro e Urbino ci sono Perugia, Pisa e Macerata, nessuna del Lazio), mentre nessuna provincia appartiene al Mezzogiorno (la prima, Teramo, è 33esima). Un vero e proprio paradosso, se si pensa al dilagare della Lega nelle Regioni del Nord. Andando a vedere più in dettaglio, la contraddizione permane. Perché se si va a misurare l’integrazione economica, attraverso cioè i redditi dei cittadini non comunitari, dopo Prato – prima provincia – ci sono sempre città del Nord: Vicenza, Gorizia e Pordenone, in cui in cui molti immigrati sono loro stessi imprenditori. Seguono Pesaro, Urbino e Pistoia. Tra le prime venti solo alcune sono del centro, Macerata, Pisa e Arezzo.

Al nord l’integrazione c’è, ma gli italiani non la vedono
Anche sul fronte dell’integrazione sociale, ovvero per quanto riguarda l’accesso al welfare dei cittadini non europei, la palma spetta a una città del nord, Trieste, seguita da Biella e Genova. Oltre a Genova c’è Torino, poi Milano, decima, e Roma al diciannovesimo posto. Per quanto riguarda l’integrazione meramente demografica la prima è Brescia, città dove gli immigrati hanno messo su radici e famiglie, poi ci sono Bergamo, Lodi, Vicenza, Cremona, Bolzano e Treviso. All’ottavo posto Pistoia, al dodicesimo Chieti. Dati che dimostrano, scrive il Censis, come “la paura e l’allarme sociale abbiano creato una rappresentazione monolitica della realtà che si discosta dalla pluralità di situazioni che presenta la realtà stessa”.

Quanti sono gli stranieri e la loro percezione
Quella degli immigrati, infatti, è una popolazione di 5 milioni di cittadini stranieri, di cui 3.582.293 non comunitari. Una popolazione, si legge sempre nel Rapporto, che “ha convissuto in maniera silenziosa e non conflittuale con i cittadini italiani, inserendosi nei singoli territori secondo un modello di integrazione molecolare”. Eppure, e anche qui l’istituto di ricerca nota una contraddizione, crescono gli episodi di razzismo e intolleranza e si afferma tra gli italiani la convinzione che l’immigrazione sia un problema piuttosto che un’opportunità e che il processo di integrazione sia bloccato. Secondo un’indagine dell’Eurobarometro di aprile, l’Italia è al primo posto tra gli Stati membri per cittadini convinti del mancato successo del processo di integrazione nella propria area di residenza, ben il 57% (11% in Portogallo, 16% in Irlanda, 21%nel Regno Unito della Brexit).

Immigrati poverissimi, al contrario che in Europa
L’altro dato che il rapporto sfata è quello degli immigrati “ricchi” grazie al welfare degli italiani. Secondo il Censis, mentre la povertà assoluta riguarda il 6,9% delle famiglie italiane, i nuclei poveri assoluti con componenti misti sono il 16,4% e le famiglie di soli stranieri il 29,2%. Non solo. Negli ultimi quattro anni, le famiglie straniere povere assolute sono cresciute del 20,6% e quelle miste addirittura del 183,1%. La situazione è ancora peggiore se si va a vedere la povertà relativa. Essa riguarda il 17,5% degli italiani (15,5% dato medio UE), il 28,9% degli stranieri comunitari (22,3% dato medio UE) e il 41,5% dei cittadini non comunitari (38% dato medio UE). Ciò vuol dire, in altre parole, che i migranti sono la componente della popolazione che sembra aver avvertito sulla propria pelle le conseguenze economiche della crisi. E mentre in tutta Europa i cittadini stranieri poveri si riducono, l’Italia è l’unico Paese in cui, invece, aumentano. Addirittura nel Regno Unito la quota di stranieri comunitari che vive in povertà relativa è inferiore a quella dei cittadini britannici. Ecco perché, nota il Censis, “sembrerebbe assai difficile non includere tra i destinatari del reddito di cittadinanza i cittadini stranieri stabili nel nostro Paese”.

Stranieri sempre di meno. Restano i meno integrabili
Il Rapporto, infine, sfata un’altra percezione sbagliata che riguarda sempre i cittadini extracomunitari, ossia che siano in numero crescente. Tra il 2010 e il 2016 gli ingressi sono diminuiti del 62,1%, passando da 598.567 del 2010 ai 226.934 del 2016. Una riduzione che interessa tutte le tipologie di permesso di soggiorno, con l’unica eccezione dei migranti umanitari. Si riducono sensibilmente anche gli ingressi per motivi di studio, dai 26.343 del 2010 ai 17.130 del 2016. I permessi di lavoro, infine, sono solo 12.873 pari al 5,7% del totale: nel 2010 erano 358.870 pari al 60% del totale. In altre parole, nota il Censis, spariscono i migranti economici, ovvero i cittadini che si trovano in Italia per lavorare. Di fatto, la posizione del nostro Paese è ormai sostanzialmente orientata alla chiusura nei confronti dei flussi migratori. Questo produce però un doppio “effetto nefasto”. Da un lato, continuerà la diminuzione d’ingressi legali, a causa di un effetto scoraggiamento che spingerà i migranti a dirigersi verso altri Paesi che garantiscono prospettive migliori. Dall’altra, la presenza di irregolari è destinata a salire. Ma il nostro Paese sarà di fatto desiderabile, chiosa il Censis, “solo per una ridotta fetta di migranti, composta dalle persone più deboli dal punto di vista economico e sociale, mentre sarà meno appetibile per quella porzione di immigrati virtuosi che attraverso processi di integrazione avrebbe potuto portare vantaggio all’economia nostrana, oltre che porre freno alla crisi demografica”.  Non a caso l’Italia, ed è un altro infelice primato, si trova al primo posto in Europa per la quota di cittadini non comunitari che hanno un basso livello di istruzione: 61,5% a fronte di una media Ue del 46,2%. Sul versante opposto Irlanda (8,1%) ma anche Lettonia, Estonia e lo stesso Regno Unito.

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