Sono tornato volentieri alla Sala Umberto di Roma a vedere Elio Crifò nel suo interessantissimo spettacolo EsotericArte, una brillante panoramica sulla storia occulta dell’Arte italiana, in cui, con giocoso tono da gigione beffardo, l’attore getta luce sull’immenso patrimonio di conoscenza esoterica sottesa ai capolavori dell’architettura e della pittura, soprattutto, medievale.

Il discorso di Crifò non si limita a una mera analisi iconografica, ma si estende a una riflessione squisitamente filosofica.

Come scrive perfettamente Chiara Babuin nella sua recensione sul sito Alchimia dei Simboli, “l’intento di Crifò è quello di spodestare la visione scientista, tecnocratica e falsamente progressista (ricordiamo la distinzione pasoliniana tra Sviluppo e Progresso) che ormai governa il contemporaneo, in favore di un recupero – o di una presa di coscienza da parte del pubblico – di quel legame arcaico, ancestrale che era il fondamento del Sapere delle più grandi civiltà che hanno solcato questa terra”.

E se a qualcuno certi toni e certe maiuscole possono far immediatamente respirare un’aria tradizionale spesso legata alle forme più esaltate del pensiero reazionario, ricordiamo la riflessione di Gramsci (tratta dai Quaderni del Carcere in cui il Fascismo lo aveva imprigionato) che potrebbe serenamente essere posta in calce allo spettacolo: “Cultura, non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri”.

A fare da controcanto (come in passato Vittorio Sgarbi) alla voce narrante di Crifò, appare Piergiorgio Odifreddi, “il matematico impertinente” ovvero l’incarnazione più baldanzosa dello scientismo imperante additato dal teatrante. L’idea è molto apprezzabile: uno spettacolo che, con forza e chiarezza, condanna la mentalità dualistica, dominante come prassi ormai in qualsiasi forma involgarita di dibattito corrente, mostra proprio la possibilità di ospitare su un palco visioni opposte.

I problemi nascono, però, quando dalle, diversamente, lecite opinioni si scade in urticanti luoghi comuni o grottesche deformazioni ideologiche. Nessuno nega le qualità di Odifreddi quale dotto divulgatore quando si parla di matematica, ma i suoi interventi mi sembrano semplicemente imbarazzanti per limiti di visione quando parla di filosofia o di letteratura. A fine spettacolo, infatti, ha inanellato una serie di gravi sciocchezze da record su Dante. Un record ottenuto in pochi minuti in cui (sull’onda di stanchi esercizi parodistici à la Voltaire) e è riuscito a definire il sommo poeta “baciapile” e ha accennato (si spera scherzosamente) alla pedofilia per l’incontro con Beatrice novenne, oltre ad aver detto che “siccome scrivere come Dante era facile, gli ultimi canti li hanno scritti i figli” (riferendosi all’episodio del famoso ritrovamento tardivo degli stessi raccontato da Boccaccio).

Il punto è che Odifreddi non ha detto queste enormità come boutade o provocazioni, o come sue (discutibilissime) opinioni, ma come fatti acclarati. Ricordo che l’uomo accusato di essere un baciapile ebbe il coraggio di destinare il papa dell’epoca all’Inferno ancora da vivo (XIX, Inferno) e mise in bocca al capostipite Pietro la più violenta accusa nei confronti della corruzione della Chiesa della storia della letteratura italiana (XXVII, Paradiso); sulle accuse di pedofilia, un mediocre studente di prima media sa che i 9 anni di Beatrice sono chiaramente un’allegoria numerologica (eh sì, i numeri non servono solo a far di conto). Sulla natura spirituale dell’amore dantesco e sul valore dell’opera ritengo offensivo per la mia intelligenza dover commentare oltre.

Senza scomodare Contini, Sapegno, Auerbach, T.S. Eliot, mi permetto di consigliare a Odifreddi alcune letture.

Innanzitutto, la meravigliosa edizione TASCHEN de La Divina Commedia illustrata da William Blake, nelle cui note troverà dei commenti che esaltano il Dante “ghibellino” (a rigore era un guelfo bianco), ovvero assolutamente critico nei confronti dello strapotere ecclesiale.

Poi, lo invito a riascoltare l’opera del sommo poeta nella lettura, colta e garbata, del compianto Vittorio Sermonti, ora ripubblicata in un bel cofanetto da Emons: una interpretazione equidistante dai sommi voli lirici di Carmelo Bene quanto dalla divulgazione entusiasta di Benigni, in grado di unire rigore filologico e sapienza attoriale (con maggiore sobrietà rispetto anche a Vittorio Gassman).

Infine, l’ultimo libro di una sua vecchia conoscenza, Marco Grimaldi, ovvero Dante, nostro contemporaneo, uscito per Castelvecchi: un agile e efficace libretto che, procedendo per macrotemi, illustra la straordinaria attualità del poema dantesco. Suggerisco umilmente a Odifreddi di documentarsi con più attenzione e rispetto sul sommo poeta, per evitare di confermare l’opinione dello stesso Grimaldi quando definì, con solide argomentazioni, il capitolo su Dante del suo Dizionario della Stupidità come “un esempio di cattiva divulgazione”.

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