Ride, presentato in anteprima al Torino Film Festival e da giovedì scorso in sala, è il titolo un po’ paradossale del film di Valerio Mastandrea, attore navigato e poliedrico che, fatta eccezione per un corto del 2005, si misura ora per la prima volta con la regia. Paradossale perché il film racconta una storia in cui c’è poco da ridere, la storia del dolore conseguente a una morte sul lavoro. La morte in se stessa rimane fuori campo, nel non visto e non detto del film: è accaduta prima e ora restano solo gli altri, quelli che devono fare i conti con il lutto. È a loro, “a chi resta”, che il film è dedicato.

Ma, come accade con ogni fuori campo, anche qui la morte, il fuori campo assoluto, riempie di sé anche il campo, ciò che si vede e si racconta. Tre personaggi, tre generazioni diverse (o forse quattro perché c’è anche un fratello che ritrova con l’occasione i duri legami familiari), interpretano tre modi diversi di confrontarsi con quell’evento. Carolina, la moglie del giovane operaio morto ingiustamente perché “Si muore in guerra, non al lavoro”, come si dice nel film, esprime il suo dolore senza tradurlo in pianto e ne sente il peso. Bruno, il figlio di Carolina, bambino formattato in stile televisivo, già si vede intervistato sulla morte del padre e si prepara a rispondere in proposito con l’aiuto di un amico. Il più spontaneo nel contenimento del suo dolore è Cesare, l’anziano padre interpretato da Renato Carpentieri, che esprime un dolore imploso, un’interiorità drammaticamente partecipe benché – o forse proprio perché – senza lacrime: come il figlio morto, anche lui è stato operaio in una fabbrica, e dunque sa quali ne sono i rischi. Ma ciò non vuol dire rassegnarcisi. La sua è la rabbia composta di chi è consapevole e lotta, ha lottato per una vita diversa.

Ognuno attende il funerale come crede e come può, circondato da compagni di strada a volte surreali, altre volte autocentrati. Carolina, in particolare, vede la sua casa invasa dalle visite dei propri vicini, ognuno dei quali porta con sé i propri tic anziché partecipare sommessamente al dolore. È difficile per lei come per gli altri lasciare libero corso all’espressione dei propri sentimenti: i condizionamenti dell’esterno sembrano prevalere sulla spontaneità, dunque è strano non piangere di fronte al dolore e sembra che tutti debbano mettersi in scena, in questo teatro collettivo che è il momento della socializzazione della morte. Così non è paradossale, al di là delle apparenze, che la più colpita da questa perdita sia una vecchia fidanzata della vittima, dei tempi della scuola e dell’adolescenza: lei di quel vecchio amore ha conservato solo un’immagine ridotta a cliché, che ora restituisce nella forma della messa in scena del dolore, e dunque si dispera.

Giova al film il tocco delicato della scrittura, che intreccia registri drammatici e toni più brillanti. In certi momenti sembra di cogliere nella definizione dei personaggi l’ironia tipica dello stile del Mastandrea attore, affidata più al non detto e al sottinteso che allo sviluppo completo delle situazioni. Come se l’unico modo per affrontare i difficili frangenti della vita fosse quello di spiazzare i sentimenti.

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