Il canone Rai è un ricavo per la concessionaria pubblica, ma è anche una risorsa dell’intero sistema audiovisivo. Per quale motivo? Se la Rai fosse privatizzata e non ci fosse più il canone, l’azienda di viale Mazzini avrebbe gli stessi indici di affollamento pubblicitario delle tv commerciale (attualmente l’affollamento Rai è inferiore di meno della metà). Ciò comporterebbe per la Rai un ricavo pubblicitario più del doppio rispetto all’attuale e questa quota aggiuntiva sarebbe tolta agli altri mezzi pubblicitari. Per questo motivo nessun dirigente delle tv commerciali ha mai sostenuto l’abolizione del canone, perché sa bene che una quota del canone, in maniera del tutto indiretta, finanzia anche la sua televisione.

Oltretutto siamo in una fase nella quale le televisioni in generale non se la passano proprio bene. Dal 2011 i tre principali network televisivi hanno registrato – vedi tabella – complessivamente un calo dei ricavi pari a -10%. Una débâcle, quindi, anche se la situazione è diversa fra i tre operatori (ricordo che il confronto è indicativo, in quanto i perimetri di mercato delle tre imprese sono diversi: per esempio la Rai svolge diverse attività “fuori mercato”). Guardiamo cosa succede alla Rai. L’azienda pubblica registra un calo di -10%, determinato da +4% dei ricavi da canone e da -36% della pubblicità (un vero crollo, non giustificabile dalla sola crisi del mercato pubblicitario). L’unica risorsa che aumenta è quindi quella derivante dal canone, una risorsa non di mercato, segno della debolezza dell’intero sistema.

Perché i ricavi da canone aumentano? La riforma del 2016 ha introdotto il principio che l’esistenza di un apparecchio radiotelevisivo sia legato all’utenza elettrica nel luogo della residenza di ogni famiglia. Ciò ha determinato l’azzeramento dell’elevata evasione del canone (stimata in circa 30-35%), con un incremento del gettito complessivo pari circa 500 milioni. Una scelta quindi più che positiva. Di questa cifra alla Rai è però toccata una minima parte. Una porzione è stata sottratta dalla riduzione del canone unitario, portato da 113,5 euro del 2015 agli attuali 90 (di gran lunga il più basso in Europa). Altre parti di quell’extra-gettito è stato acquisito dallo Stato per ripianare il deficit pubblico (una goccia nell’oceano!) e per finanziare il fondo per il pluralismo dell’emittenza locale (che dovrebbe essere stato soppresso). Come detto, alla Rai va una quota relativamente minima dell’extra-gettito, quota che oltretutto è stabilita annualmente dalla legge di stabilità (la Rai trattata come un ministero!).

Dalla vicenda si traggono due considerazioni. La Rai è trattata come un ministero. È il governo ora a decidere annualmente la quota del gettito complessivo del canone che Rai deve avere. Il servizio pubblico dipende sempre più dal governo: ciò è una anomalia e cozza contro i dettami della Corte costituzionale, che ha sempre sostenuto la sua “dipendenza” istituzionale dal Parlamento. Se si fosse data alla Rai la quasi totalità dell’extra-gettito, si sarebbe potuto – senza creare danni al conto economico dell’azienda pubblica – ridurre il legame con la pubblicità (riprendendo per esempio la vecchia idea di una rete senza pubblicità, oppure riducendo ulteriormente l’affollamento) rendendola meno spinta sulla programmazione commerciale, un suo attuale limite. Ricordiamo che la Rai, come da grafico, è il servizio pubblico europeo più “commerciale”.

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