Betlemme, Palestina. Un muro divide la parte palestinese dalla zona israeliana. Molti street artists lo utilizzano per esprimere la propria solidarietà al popolo palestinese. Tra di loro, il caso più eclatante è quello di Banksy, l’artista misterioso che non si mostra, ma che lascia i segni della sua arte nelle forme più singolari. A Betlemme il suo disegno sul muro ritrae un asino con un soldato che gli chiede i documenti (The donkey with the soldier). Segno del paradosso a cui quella condizione ormai “normalizzata” di divisione conduce. Il disegno non resta a lungo nel luogo in cui è stato fatto: qualcuno lo “ruba” portando via quattro tonnellate di muro, smontando letteralmente una parte di quella divisione. In seguito a questa azione nasce un caso mediatico internazionale. E nasce anche un film, The man who stole Banksy di Marco Proserpio, proiettato e già premiato al Torino Film Festival, in corso fino al 1° dicembre.

Soprattutto, il furto di un’opera “da strada” solleva una serie di questioni etiche ed estetiche: qual è il senso di quella decontestualizzazione? La street-art nasce come arte effimera, volatile, destinata a svanire facilmente. Non è arte da museo, quindi fino a che punto è lecito spostarla facendole perdere, per di più, il valore di testimonianza-denuncia per cui è nata? D’altra parte, Banksy è ormai un artista inseguito dai media proprio per il segreto che mantiene sulla sua persona. Dunque farsi inseguire in questo caso vuol dire portare il caso del muro israeliano all’attenzione dei media, far andare i media, come dice il commento del film affidato alla voce di Iggy Pop, “dove dovrebbero e non dove vorrebbero”.

Da un lato c’è la dimensione etica: è giusto che un’opera che nasce senza intenzione commerciale, ma come puro gesto di solidarietà e partecipazione, diventi invece un oggetto di valore al punto da essere portata prima a Londra, poi in America per una vendita all’asta e poi di nuovo a Londra, dove si trova tuttora? Non si dovrebbero far vivere ed eventualmente morire queste opere là dove sono state concepite e nel contesto in cui sono nate? Dall’altro lato c’è la dimensione estetica: quest’arte “sporca”, che nasce senza i titoli nobiliari dell’Arte con la A maiuscola, non è il segno più genuino di questi tempi altrettanto “sporchi” in cui tutte le vecchie categorie sono saltate, e l’ibrido, l’impuro, il meticcio definiscono il presente in tutte le sue declinazioni? E all’incrocio tra etico ed estetico, è corretto rafforzare una “firma” come quella di Banksy a partire da un oggetto “politico” come The donkey with the soldier?

Più in generale questi prodotti stimolano riflessioni sul confine tra bello e brutto, vero e falso, legale e illegale. Per un paradosso tutto contemporaneo è più illegale nel Medio Oriente disegnare un’opera sul muro che sottrarla. E c’è comunque una componente di disubbidienza innata nella street-art, come ricorda nel film Paolo Bruggiani, altro street-artist, questa volta italiano. Se infatti tutto si ricomponesse nell’ubbidienza, l’artista diventerebbe un artigiano, perderebbe la sua carica a suo modo sovversiva. Tanta è la necessità di essere contro che, quando alcune opere di strada diventano una mostra collettiva a Bologna sotto il titolo Banksy & Co, uno degli artisti del gruppo – il suo nome è Blu – decide di verniciare e dunque far scomparire le sue opere che popolavano i muri di Bologna.

I temi che solleva la street-art sono i temi del tempo presente, in fin dei conti quelli della società connessa in cui siamo immersi: come conciliare il transito continuo del nostro essere attraverso le mille prove social che continuamente diamo – soprattutto a noi stessi – con l’illusione di un’eternità a bassa definizione che gli stessi social potrebbero dare? The man who stole Banksy esce nelle sale italiane solo l’11 e 12 dicembre.

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