“Non lo rifarà di nuovo”, “ha detto che mi ama”, “questa era l’ultima volta”. Sono solo alcune delle tante frasi che ogni giorno migliaia di donne vittime di violenza, ripetono a loro stesse. Non chiedono aiuto, spesso per poca fiducia nelle istituzioni, e, quando lo chiedono, per i processi passano anni o ai loro carnefici vengono inflitte pene ‘poco dure’. È la drammatica situazione che emerge dalle storie raccontate a Montecitorio da alcuni testimoni durante il lancio dell’iniziativa “Non è normale che sia normale, promossa dalla vicepresidente della Camera, Mara Carfagna, che, in vista della giornata internazionale delle Nazioni Unite, punta a sensibilizzare sul tema della violenza sulle donne.

“Ogni tre giorni una donna viene uccisa da chi diceva di amarla”, esordisce l’ex ministro per le pari opportunità, promotrice nel 2007 della legge per il reato di stalking. “I casi di violenza sono spesso una guerra silenziosa che si consuma all’interno delle mura domestiche. Ma per cambiare non bastano le leggi (l’ultima proposta è un emendamento che riconosca un fondo per assistere le famiglie affidatarie degli orfani di un femminicidio) Bisogna cambiare la testa delle persone. Mettere in campo una rivoluzione culturale e delle testimonianze che smuovono le coscienze”. Il progetto, che chiede di condividere sui social video e foto che denuncino la problematica, accompagnati dall’hashtag #nonènormalechesianormale, è stato già appoggiato da molti personaggi del mondo dello spettacolo, da Alessandra Amoroso, a Selvaggia Lucarelli, fino a Fiorello e Ivan Zaitzev. “Abbiamo voluto dimostrare – spiega ancora la Carfagna – che si può fare un uso virtuoso di quei social da dove spesso vengono diffusi messaggi di odio”.

Quattro le persone scelte per testimoniare questa “piaga della società” e chiamate a raccontare la loro storia sul palco della sala della Lupa a Montecitorio, intervistate da Barbara Palombelli, Barbara d’Urso, Monica Mosca e Serena Bortone.

Ilaria e Gianluca, uccisi dal classico ‘bravo ragazzo’ – La storia risale al giugno 2011. A raccontarla è Giovanni Palumieri, padre di Gianluca e Ilaria, due fratelli uccisi dall’ex fidanzato di lei a Milano. “Lo stesso che cenava a casa nostra, che accompagnavo a casa in moto”, racconta Giovanni intervistato dalla conduttrice di Forum. Il figlio maschio ammazzato con 20 coltellate. Lei, colpevole di averlo lasciato, rinchiusa e torturata e violentata per 14 ore, poi soffocata con un sacchetto di plastica. “Era il classico bravo ragazzo. La madre faceva la maestra, il padre il magazziniere. Una famiglia normale”, continua il testimone. La vicenda è ormai abitudine: lei lascia lui, lui non accetta la separazione e comincia a perseguitarla, fino a diventare il suo stalker, il suo incubo. “Mia figlia ha sempre dato poco seguito a queste cose, era una donna forte”, dice ancora Giovanni, con la voce rotta dalla commozione. “Credo che il suo essere mostro sia derivato dall’incapacità di elaborare un dolore”, dice, sottolineando poi che a mancare, nella delitto della figlia, è stata soprattutto la “rete”. Nonostante le urla, infatti, in quelle 14 ore di sevizie nessun vicino di casa ha chiamato aiuto. “Se quel vicino di casa avesse composto 3 numeri sul telefono mia figlia sarebbe viva”, conclude Giovanni.

Filomena Lamberti, sfregiata con l’acido dal marito ‘geloso’ – La conduttrice di Pomeriggio Cinque sposta il suo ‘salotto’ a Montecitorio. Seduta di fronte a lei, pronta per essere intervistata, c’è Filomena, una donna scampata a un femminicidio, ma soprattutto una donna che ha vissuto oltre 30 anni di violenza. “Avevo 16 anni quando a Salerno ho incontrato l’amore della mia vita. Allora la gelosia, le proibizioni, sono ‘normali’, pensi che sia amore. In realtà è l’inizio del possesso”. Nel 2011, dopo anni di botte, gelosie ingiustificate e divieti, Filomena decide di lasciare il marito, di separarsi. “È stato difficile farlo prima. Mi picchiava anche davanti ai miei tre figli, vittime della cosiddetta ‘violenza assistita’ – continua Filomena – L’uomo possessivo ti isola, da tutto e da tutti. Oltre a quella fisica, c’è soprattutto quella psicologica”. È allora, dopo pochi mesi, a maggio 2012, che cade la goccia che fa traboccare il vaso, l’ultimo episodio di violenza. Sono le 4 del mattino, Filomena dorme e suo marito la sveglia. Ha in mano una bottiglia di acido, le dice, “guarda cosa ti faccio”, poi glielo versa addosso. Il 40% del corpo è ustionato. Dopo 25 interventi Filomena vede, ma, racconta, “ne manca ancora qualcuno”. Dopo 25 interventi, però, lui ha scontato solo 15 mesi in carcere. “Non fu condannato per tentato omicidio, ma solo per maltrattamenti in famiglia. Ha sempre detto che lo rifarebbe”, conclude. 

Renato cresce i nipoti che hanno visto il padre ammazzare la madre – Renato non si fa riprendere il volto. È intervistato dalla giornalista Monica Mosca e denuncia l’assenza delle istituzioni nella sua vicenda. È il 2014 quando la figlia di Renato denuncia le violenze del marito al centro antiviolenza. Il tempo passa e la questura risponde solo dopo sei mesi, ammonendo verbalmente l’uomo. Passano ancora pochi mesi e lei viene uccisa, sgozzata e pugnalata dal marito di fronte ai figli di 3 e 6 anni. I piccoli vengono affidati ai nonni materni che da allora vivono un dramma quotidiano. “Il momento più difficile è la sera perché l’omicidio è avvenuto in quell’orario. I bambini hanno paura di tutto. Che il padre possa scappare di prigione per venirli a prendere e ucciderli”. I bambini oggi hanno 10 e 7 anni, eppure vanno ancora dagli psicologi, così come i nonni, e vengono seguiti da diverse educatrici. Tutte le spese, da quelle processuali a quelle dei terapisti, sono a carico dei nonni, “completamente abbandonati dalle istituzioni”. Ora hanno chiesto accesso al “fondo per le vittime collaterali”, ma, denuncia Renato, “sono convinti che non potranno accedervi”.

Patrizia Pagliarone, vittima di uno stalker quando ancora non esisteva il reato – C’è un’escalation comune a tutte le vittime di stalker. “Prima mostra una gelosia ossessiva, poi tende ad isolarti”, racconta Patrizia alla giornalista Serena Bortone. Il suo carnefice, dice la Bortone, è Andrea Buscemi, assessore a Pisa. La storia inizia nel 2007. “Mi arrivava una telefonata e per vedere chi fosse mi strappava il telefono dalle mani. Quando dormivamo insieme mi svegliava in piena notte facendomi domande su ciò che aveva letto nel mio cellulare”, racconta Patrizia che, dice, più volte ha provato a interrompere la relazione. “Diceva che si sarebbe suicidato – continua – e io all’inizio gli credevo. Mi dicevo che non l’avrebbe rifatto. Poi lo rifaceva sempre”. Patrizia racconta di inseguimenti e persino dell’assunzione di tre investigatori per pedinarla. “Ha fatto di tutto per distruggere il rapporto con mio figlio, di cui era gelosissimo, ma senza riuscirci”. Finalmente, però, un giorno Patrizia si decide a denunciarlo. Il primo processo finisce con un’assoluzione. In appello il giudice riconosce i fatti, Buscemi è colpevole, ma “non può essere condannato”. “All’epoca dei fatti non esisteva la legge sullo stalking – spiega Patrizia – e poi c’era la prescrizione”. Il paradosso, dice sempre la donna, è che ora lui è diventato assessore. “Il centro anti-violenza ha raccolto 45mila firme per farlo dimettere. Lui? Ha denunciato a sua volta il centro anti-violenza per stalking. Assurdo”. 

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