Chi governa vuole “controllare” la divulgazione scientifica in tv. Una commissione che decide le “ricerche più importanti da divulgare” dovrebbe imprimere una sorta di bollino di originalità, controllata e garantita. Se il marchio D.o.c.g. fa un buon servizio alla viticoltura e all’enologia, perché non applicare lo stesso principio alla cultura e alla scienza?

C’è chi parla di censura, ignorando che nella scienza una forma di censura c’è già: il controllo reciproco chiamato peer review, la revisione tra pari. Se uno studioso scopre qualcosa di nuovo, scrive un articolo e lo sottopone a una rivista scientifica, il cui comitato editoriale invia l’articolo ai cosiddetti pari. Altri studiosi della disciplina – o esperti del tema se multidisciplinare – decidono se valga la pena pubblicarlo, dopo aver individuato eventuali errori e omissioni, vagliato l’originalità, suggerito modifiche, valutato la riproducibilità degli esperimenti. Molti articoli sono respinti perché di qualità insufficiente, per quella rivista. E non tutte le riviste hanno gli stessi standard di qualità. Il marchio D.o.c.g. è già impresso alla fonte, basta saperlo leggere.

Come scrivo in Morte e resurrezione delle Università, il sistema ha però subito una distorsione sempre più evidente: “Le migliori riviste scientifiche sono quelle che attirano i lavori dei migliori studiosi che, a loro volta, sono gli autori i cui lavori sono accettati da quelle stesse riviste su consiglio di altri accademici, ancora di alto livello, che sono stati reclutati come redattori. Senza contare che l’accesso digitale alle bibliografie via web, offre una documentazione esauriente soltanto per quanto pubblicato dopo il 1990, mentre è tuttora assai povero per le pubblicazioni del passato. Non è perciò impossibile imbattersi in novità scientifiche che hanno ben poco della novità, poiché non fanno che riscoprire vecchi e noti risultati; e, quasi certamente, sono state prodotte da internauti che, in buona fede, hanno ripercorso vecchie strade, senza entrare mai in biblioteca”. La questione della qualità della ricerca e della sua capacità di produrre conoscenza e innovazione non è quindi così semplice da affrontare come sembra, neppure dall’interno del sistema. Scaricare la patata bollente sull’ultimo anello della filiera, il divulgatore, non è perciò onesto.

In alcuni Paesi, tra questi l’Italia, la capacità di distinguere tra scienza e opinioni da bar sport è modesta. Per esempio, Antonino Zichichi – un fisico del XX secolo a cui va il grande merito di aver offerto al mondo scientifico la splendida cornice di Erice – affermava che l’evoluzione non è una scienza perché priva di equazioni che la descrivano. Zichichi è stato un fisico eminente, ma non ha pubblicato contributi scientifici salienti sull’evoluzione e, perciò, la sua autorevolezza in materia è ridotta. Così come quando parla di bufale climatiche per negare l’influenza antropica sui cambiamenti climatici a cui stiamo assistendo. I divulgatori che accreditano opinioni su Darwin e sul clima da parte di chi non ha mai studiato a fondo questi temi offrono un servizio scadente.

Per questo motivo, alcuni studiosi sono favorevoli a una commissione redazionale – composta da esperti di tutti i campi, magari di altri Paesi – che controlli l’attendibilità di ciò che va in onda sulla tv di Stato. Coloro che un giorno trattano il clima e il giorno dopo il dna, vanno anche scusati: mica possono essere dei tuttologi; e di Pico della Mirandola abbiamo perso l’eredità. L’altro partito, al quale m’iscrivo, è contrario; perché convinto che, invece, la commissione servirebbe a punire i nemici e favorire gli amici. È stata la filosofia di tutte le iniziative “mirate” sui cosiddetti progetti di eccellenza, variamente intraprese negli ultimi 20 anni a partire dal ministero Berlinguer dei governi Prodi e D’Alema fino a oggi. L’Italia non è soltanto il Paese dei bar sport, ma anche quello di nani e ballerine. E la serendipity ha forse offerto maggiori servigi all’umanità di molti progetti roboanti.

La responsabilità degli studiosi non è comunque trascurabile. Inaugurando l’anno accademico dell’Accademia nazionale dei Lincei, Giorgio Parisi osserva come la “sfiducia di massa nella scienza sia dovuta anche ad una certa arroganza degli scienziati che presentano la scienza come sapienza assoluta, rispetto agli altri saperi opinabili, anche nei casi in cui non lo è affatto. A volte l’arroganza consiste non nel cercare di far arrivare al pubblico le prove di cui si dispone, ma di chiedere un assenso incondizionato basato sulla fiducia negli esperti”. Più che prendersela con i divulgatori, ogni studioso dovrebbe perciò svolgere con più cura la “terza missione” che gli è stata affidata. Assieme a ricerca e insegnamento, c’è la divulgazione dei risultati verso il grande pubblico. Bisogna rischiare di più in proprio, senza pontificare e affrontando il contraddittorio, che la tv dovrebbe sì promuovere tra pari con maggiore frequenza. E senza illudersi che basti passare una velina a qualcuno che svolga questo mestiere per lui.

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