Quando aveva 18 anni Felice riuscì a iscriversi all’Università Federico II di Napoli, facoltà di Scienze politiche. “La mia era una famiglia di operai e io volevo essere economicamente indipendente. Durante l’estate, dopo la maturità, iniziai a lavorare in un ristorante riuscendo a mettere da parte soldi per l’iscrizione e per i primi libri”. Non aveva fatto i conti, però, con la stagione invernale: “Qui senza alcun preavviso e senza alcun contratto che ti protegga ti ritrovi senza lavoro”. C’erano due modi per impiegare gli ultimi mille euro rimasti da parte: tirare avanti con gli studi o investirli in un viaggio a Londra. “Fu così che capii che il mio futuro non era in Italia”. Oggi Felice Terracciano, 24enne originario di Pozzuoli, vive e lavora in Kuwait, dove insieme a uno sceicco gestisce un marchio di pizzerie napoletane: “Vogliamo portare la tradizione in tutto il golfo Persico”, sorride.

Felice ha lasciato l’Italia il 3 febbraio 2014 e da allora non è più tornato. “Ricordo bene quel giorno – racconta –. Ero triste perché dovevo lasciarmi tutto alle spalle. La mia famiglia, i miei amici. Ma, soprattutto, avevo capito che in Italia un giovane non sa come fare per realizzare i suoi sogni. Ero ambizioso e allora ho pensato che forse meritavo altro”. Dopo un’esperienza prima in Grecia e poi in Olanda, Felice torna a Londra per gestire una pizzeria di una compagnia inglese per due anni. “Un giorno venne ad assaggiare la pizza lo sceicco Nasser AlSabah e mi parlò del suo progetto. Decisi di provarci. Lo portai in visita a Napoli per far incontrare le nostre due culture”. Dopo un anno di lavoro Felice si è spostato stabilmente a Kuwait City: “Mi sono sentito subito accolto. Qui le persone sono socievoli e altruiste”.

Vogliamo che i clienti si sentano in una piccola Napoli del Medio Oriente

Insieme ad AlSabah Felice sta avviando un marchio legato alla cucina napoletana: si parte da Kuwait City con l’obiettivo di espandersi nelle principali città del Medio Oriente. Ogni mattina Felice si ritrova nella sua pizzeria: “Mentre i miei colleghi accendono il forno e preparano la sala io sono in ufficio ad occuparmi dei conti, del raggiungimento degli obiettivi, dell’analisi dei dati. Mi metto in contatto con diversi fornitori locali, specie napoletani – sorride –. Quando inizia il turno sono lì ad aiutare e a gestire il team. Vogliamo che i clienti si sentano in una piccola Napoli del Medio Oriente”.

La vita in Kuwait è molto diversa da quella in Italia. Anche dal punto di vista economico. “Qui appare tutto semplice perché il governo supporta molto i suoi cittadini – spiega Felice – L’assistenza sanitaria e l’educazione scolastica, ad esempio, sono gratuite. Tutti i residenti ricevono sovvenzioni significative per acqua, benzina ed elettricità; ogni famiglia riceve aiuti dallo Stato in alimenti primari, lo Stato provvede ad un prestito ad interesse zero per i matrimoni e le madri senza un lavoro hanno diritto ad un salario da parte del governo. E qui non si paga neanche l’1 % di tasse. Zero”.  Per Felice il Kuwait è “il Paese più democratico del Medio Oriente e il più liberale del Golfo”. Anche l’alloggio e il trasporto “per legge vengono retribuiti dall’azienda per la quale lavori: così hai la possibilità di mettere da parte gran parte dello stipendio. Con una delle valute più forti al mondo”.

Mi sono sentito costretto ad andare via perché ero stanco degli italiani

E l’Italia? Per ora questo giovane pizzaiolo campano la vede con gli occhi di un turista. “E mi piace guardarla sotto questo punto di vista”, dice. Tornare? Un giorno, magari. Ma da imprenditore. Felice è chiaro sul punto: “Non ho nessuna intenzione di condividere il mio sudore con un sistema che non mi ha mai aiutato, a differenza dei diversi Paesi dove sono stato”. In Kuwait “la gente è di un’apertura e di un altruismo che mai avevo immaginato di trovare in Medio Oriente”, racconta. E poi c’è un motivo in più per restare. “Sto per diventare papà. Sono sicuro che mio figlio crescerà qui senza tabù e dubbi sul suo futuro”.

Dell’Italia manca l’affetto della famiglia. E il prosciutto di Parma. “Sì, c’è una cosa che cambierei del mio Paese: l’organizzazione dell’educazione scolastica. Vorrei che lo Stato investisse sui giovani e che non ci si accontentasse di un sistema marcio. Mi sono sentito costretto ad andare via – conclude – perché ero stanco degli italiani. Senza orizzonti, limitati, che si lagnano ma preferiscono star seduti per ore a bere un caffè senza preoccuparsi del futuro”.

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