Una volta quando si arrivava al lavoro si timbrava il cartellino, adesso si striscia il badge. In futuro – ed è inquietante – avremo un chip impiantato sotto pelle che comunica al sistema di rilevamento presenze quando arriviamo. Si tratta di dispositivi simili ai microchip per la registrazione degli animali domestici all’anagrafe cittadina. Hanno approssimativamente la dimensioni di un chicco di riso, e si iniettano fra il pollice e l’indice della mano mediante una speciale siringa.

I rischi per la salute sono inesistenti o quasi, e possono avere molteplici funzioni. In azienda permettono ai dipendenti di aprire la porta principale, di accedere al proprio ufficio o anche acquistare bevande e merendine ai distributori automatici. Fuori ufficio possono avviare l’automobile con un cenno della mano, archiviare dati medici e persino l’abbonamento del treno, come accade in Svezia. Proprio nei paesi scandinavi sono iniziate tempo fa le sperimentazioni e adesso sono scese in campo la principale organizzazione di datori di lavoro (CBI, Confederation of British Industry) e il principale organismo sindacale della Gran Bretagna (TUC Trades Union Congress, in italiano Federazione Sindacale). Quello che preoccupa è la prospettiva che le aziende britanniche possano forzare i dipendenti a farsi impiantare questi chip.

Stando a quanto riporta il quotidiano The Guardian, l’allarme è stato scatenato da situazioni reali. L’azienda britannica BioTeq, che offre gli impianti ad aziende e privati, ha già installato 150 microchip sottopelle nel Regno Unito, sia a singoli individui che agli staff di “alcune società finanziarie e di ingegneria”. Anche una banca ha adottato questa soluzione con alcuni dipendenti che lavorano all’estero, e lo scorso anno l’azienda Three Square Market del Wisconsin è diventata la prima azienda negli Stati Uniti a microcippare i propri dipendenti, su base volontaria. L’azienda svedese Biohax produttrice di microchip, avrebbe confermato al Sunday Telegraph di essere in contatto con diverse società legali e finanziarie britanniche per l’adozione dei microchip da parte dei dipendenti. Tra queste ci sarebbe una realtà con centinaia di migliaia di dipendenti.

Il dibattito è acceso, ed è incentrato principalmente su due fronti: la privacy e la sicurezza. Partiamo dalla sicurezza. È vero che il chip non può essere perso o rubato con la stessa facilità del badge. Nelle realtà professionali in cui si trattano informazioni riservate a vari livelli, il microchip potrebbe garantire che nessun estraneo abbia vita facile nell’introdursi in azienda. Proprio la sicurezza sarebbe il primo e più importante motivo nella scelta di questa soluzione. D’altro canto, è da annotare che il chip è “leggibile” in un’area di pochi centimetri. Sul piano teorico, in una metro affollata un criminale potrebbe avvicinare un lettore NFC (basta uno smartphone) ed estrarre dati sensibili dall’inconsapevole vittima. Poco probabile, ma non impossibile.

Sul fronte della privacy invece la questione è piuttosto semplice: il microchip darebbe all’azienda un maggiore potere di controllo sui lavoratori. Oltre a sapere quando si entra e si esce dall’azienda, sarebbe semplice usare il chip per “sapere” quante volte una persona è andata al bagno, quanti caffè ha bevuto, qual è il suo stato di salute – che in alcuni casi può essere rilevante nell’ambito lavorativo.

A questo punto la domanda è lecita: l’adozione del microchip dovrebbe essere solo volontaria o può essere coatta? Finora si è sempre parlato di casi volontari (almeno sulla carta) e nessuno ammette di avere in qualche modo “forzato la mano” ai dipendenti. Sappiamo però che ci sono molti modi per incassare il consenso dei lavoratori, a partire già dalla fase di colloquio, in cui la disponibilità o meno ad aderire all’iniziativa potrebbe fare la differenza sull’assunzione. Se vi proponessero di farvi iniettare un microchip quale sarebbe la vostra risposta?

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