Lungi dal rasserenare il clima, l’intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi e del suo cosiddetto “ramo volontario” a sostegno di Banca Carige, contribuisce ad alimentare la preoccupazione sullo stato di salute delle banche e sulla loro capacità di tenuta a fronte di uno spread che si colloca ormai stabilmente al di sopra di quota 300. Lo dimostra ancora una volta l’andamento dei titoli bancari in Borsa all’indomani del via libera al rafforzamento patrimoniale: oltre alla stessa Carige, che non è riuscita a fare prezzo e ha segnato un ribasso teorico di oltre il 48%, spicca il rosso di Mps, la cui quotazione in mattinata era addirittura finita sotto quota 1,45, e il segno meno di Banco Bpm, realtà bancaria che – nonostante la recente fusione – continua a essere percepita come problematica. Male anche il “neo-risanato” Credito Valtellinese, che ha lasciato sul terreno quasi il 2%, per non parlare delle quotazioni di alcuni istituti minori. In controtendenza  solo Intesa Sanpaolo, Unicredit, Ubi Banca e pochi altri istituti che, come Banca Generali e Banca Ifis, non praticano attività bancaria tradizionale.

Il caso Carige fa un po’ storia a sé e l’intervento del “ramo volontario” del Fondo interbancario – intervento peraltro limitato, trattandosi di un esborso di al massimo 320 milioni di euro – è stato dettato dalla necessità di prevenire una crisi che avrebbe potuto costare al sistema bancario 8 miliardi per la sola garanzia dei depositi dei correntisti, senza considerare i rischi di contagio ad altre banche e gli effetti sull’economia regionale, già duramente provata dal crollo del ponte Morandi e dai devastanti effetti del maltempo delle scorse settimane. Bene ha fatto quindi il Fondo a intervenire garantendo la sottoscrizione del bond subordinato volto a rafforzare – come richiesto dalla Bce – il capitale dell’istituto genovese.

Questa mossa però non è stata letta dal mercato come un qualcosa di risolutivo, che sgombera il campo da un problema ben circoscritto e isolato, bensì come il possibile inizio di un nuovo ciclo di interventi emergenziali a sostegno delle banche più deboli in una fase in cui a pesare non sono tanto e solo i pur gravi problemi strutturali del sistema creditizio italiano (troppe banche e troppo piccole, bassa redditività e produttività, scarsa internazionalizzazione, distorsioni nel meccanismo di erogazione del credito dovute ai rapporti incestuosi con politica e una certa imprenditoria, eccessivo peso nei portafogli dei titoli di Stato domestici, etc.), ma soprattutto una manovra economica non condivisa con i partner europei e un clima di scontro con l’Europa che contribuisce ad alimentare l’incertezza sull’Italia e che progressivamente innalza l’asticella dello spread con conseguenze gravi anche per i bilanci delle banche, oltre che per i conti pubblici.

L’obolo per Carige peserà soprattutto sui maggiori istituti di credito, ma a fronte delle crisi rimaste sotto traccia in questi ultimi anni, sorge spontanea una domanda: di quante munizioni dispone il sistema? Nel recente passato il “ramo volontario” del Fondo interbancario è intervenuto per sistemare delle crisi minori, mentre la gran parte degli istituti ha bruciato miliardi di euro nel tentativo di tamponare la crisi delle banche venete con il fondo Atlante e attraverso i contributi obbligatori al Fondo di risoluzione, che ha appunto “risolto” le quattro banche regionali poi cedute al prezzo simbolico di un euro a Ubi Banca e Bper: Popolare Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara.

Da allora (e dalla ricapitalizzazione di MontePaschi a cura dello Stato) è passato poco più di un anno, giusto il tempo di leccarsi le ferite e cercare di ridurre il più possibile il peso dei crediti in sofferenza attraverso cessioni e nuove svalutazioni. Nei bilanci delle banche non c’è dunque molto spazio per interventi straordinari a sostegno di istituti in crisi e la congiuntura non aiuta: da un lato lo spread “mangia” gli attivi delle banche avvicinando il momento in cui gli istituti meno patrimonializzati saranno costretti come Carige a varare operazioni di rafforzamento del loro capitale e dall’altro – a dispetto delle previsioni del governo – l’economia si sta fermando, come mostra lo “zero tondo” del terzo trimestre 2018.

Una crescita troppo debole (o addirittura un ritorno del segno meno) farà inevitabilmente lievitare i crediti deteriorati, creando nuovi, ulteriori problemi ai bilanci di molte banche (per non parlare dell’effetto sui conti pubblici italiani di un Pil che, anziché correre, resta fermo). Sulle banche italiane si accumulano quindi nuove nubi minacciose e il rischio è che – oltre certi livelli – la situazione si avviti molto in fretta e senza nemmeno la possibilità di contare su un salvagente pubblico, perché il clima di scontro con Bruxelles non favorirebbe certo l’accordo su altre possibili ricapitalizzazioni.

Giusto per farsi un’idea della situazione basta dare un’occhiata ai conti di Mps, che ha chiuso anche il terzo trimestre dell’anno in utile. La banca senese salvata a spese dei contribuenti italiani nel 2017 vede un netto peggioramento anno su anno su quasi tutte le principali voci di bilancio (dai ricavi alla raccolta, passando per i ratio patrimoniali con il Cet1 che si colloca al 12,5% contro il 14,8% di fine 2017 e il Total capital ratio che è sceso dal 15 al 13,9%). Quest’anno, per la prima volta, è stato introdotto l’Ifrs9 e la banca ha deciso di avvalersi – chissà perché – della facoltà di non rideterminare su basi omogenee i dati e pertanto i valori 2018 non sono pienamente comparabili con quelli del 2018.

Andando però a vedere i dati trimestrali relativi al solo 2018 si osserva trimestre dopo trimestre una costante erosione dei valori delle principali poste economiche, in parte spiegabile con fattori stagionali, in parte no. Oltre ai ricavi (-7,6% tra il primo e il terzo trimestre), al risultato operativo (-18,3% quello lordo, -23,6% quello netto) e all’utile lordo che si è più che dimezzato (da 111,3 a 41,4 milioni), risulta molto marcata (-13%) la riduzione di valore delle attività finanziarie obbligatoriamente valutate al fair value, scese tra il 30 giugno 2018 e il 30 settembre da 29,2 a 25,4 miliardi di euro. È questo uno dei primi indizi dell’effetto spread sui conti dell’istituto, la cui counterbalaning capacity a pronti – un importante indice di liquidità – è calata a 18,5 miliardi dai 21,1 di fine 2017 e di quasi un miliardo di euro rispetto al 30 giugno di quest’anno.

Se a ciò si aggiunge che, pur essendo migliorati gli indici di qualità del credito anche per effetto delle cessioni di npl, il cosiddetto Texas ratio (ossia il rapporto tra crediti deteriorati e patrimonio netto tangibile della banca)  resta appena al di sotto di quota 100, si capisce bene che la situazione dell’istituto senese non è per nulla rosea e che basta davvero poco per andare nuovamente fuori strada. E cosa dire di tutte le banche non quotate? Ve ne sono parecchie in crisi e la situazione più preoccupante, almeno dal punto di vista dimensionale, è quella della Popolare di Bari. In una situazione normale, con l’economia che cresce, equilibri di bilancio anche precari possono reggere, ma con il Pil che rallenta e l’acqua dello spread che sale c’è poco da star tranquilli. In tutto questo, volendo un nota umoristica c’è anche: mentre il Credem ha deciso di non partecipare all’intervento a sostegno di Carige, Mps – scrive il Sole 24 Ore – “deve valutare l’opportunità anche alla luce degli impegni presi con l’Europa in termini di investimenti su altri soggetti”.

Articolo Precedente

Telecom, la cacciata di Genish salva il piano per la “rete unica”. Ma non scioglie il nodo debito e dipendenti di Tim

next