di Davide Cassese *

Da qualche settimana va avanti lo scambio di battute tra l’esecutivo italiano e la Commissione europea sul contenuto della manovra economica. La Commissione ha respinto la manovra, rimandandola indietro al governo perché ne rivedesse la sostanza, in quanto manifesta una deviazione significativa dai parametri del Patto di stabilità e crescita e un allontanamento dal percorso di aggiustamento dei conti pubblici.

Secondo la Commissione il maggiore deficit indicato nella Nadef 2018 dal governo rispetto al deficit tendenziale, diversamente da quanto prevede il governo, non apporterà benefici alla crescita e non contribuirà a ridurre il rapporto debito/Pil secondo quanto stabilito dai Trattati. Nello specifico, la lettera della Commissione indica che a fronte dello sforzo strutturale dello 0.6% del Pil raccomandato dalla Commissione, il governo italiano presenta un deterioramento strutturale pari allo 0.8% del Pil. Tutto ciò rappresenta una deviazione dal rispetto del Patto di Stabilità e crescita senza eguali nella storia.

Il deficit strutturale e il Pil potenziale

Il termine “strutturale” accoppiato alla parola “deficit” identifica una specifica fattispecie: la differenza tra le entrate e le spese dello Stato al netto delle circostanze cicliche (peggioramento della congiuntura) e delle misure una tantum (misure imprevedibili come catastrofi naturali o emergenze sociali come l’immigrazione). Il deficit strutturale, dunque, rappresenterebbe la condizione dei conti pubblici di un Paese in corrispondenza del Pil potenziale, vale a dire in corrispondenza di una situazione in cui l’economia riesce ad impiegare tutte le risorse di cui dispone – lavoro e capitale – senza generare pressioni inflazionistiche. Per l’Italia, che è un Paese con elevato debito pubblico, le regole europee prescrivono un deficit strutturale pari a zero.

Il Pil potenziale di un’economia non è una grandezza osservabile, ma va stimato sulla base delle risorse a disposizione dell’economia. La stima di questo valore è fonte di grande incertezza, statistica e teorica, tanto da aver dato vita ad un apposito gruppo di lavoro presso la Commissione europea chiamato Output Gap Working Group (Ogwg). L’Ogwg, infatti, utilizza il metodo cosiddetto “della funzione di produzione” per stimare il Pil potenziale (D’Auria et al., 2010). La funzione di produzione utilizzata dalla Commissione è una funzione Cobb-Douglas a rendimenti costanti, in cui il prodotto potenziale è funzione dello stock di capitale potenziale, della disponibilità di lavoro e della cosiddetta produttività totale dei fattori (Tfp) – o residuo di Solow, che rappresenta il progresso tecnico di un’economia. Stando a documenti ufficiali prodotti dalla Commissione (Havik et al., 2014), il Pil potenziale costituisce il miglior indicatore composito dell’offerta aggregata di un’economia e il suo scopo è quello di indicare una crescita sostenibile e non inflazionistica. Una concezione, propria della teoria neoclassica, che vede il Pil potenziale come determinato unicamente da fattori di offerta, al più modificabile solo grazie a shock tecnologici o di natura strutturale.

Un punto fondamentale su cui focalizzarsi è il concetto di crescita non inflazionistica, che si basa su un tasso di disoccupazione “strutturale” calcolato anch’esso dalla Commissione europea: il Nawru (non accelerating wage rate of unemployment), cioè il tasso di disoccupazione in corrispondenza del quale il tasso di crescita dei salari nominali è zero. Questo tasso di disoccupazione è considerato strutturale in quanto connaturato a un certo sistema economico, come se fosse il risultato di determinati fattori che vanno a caratterizzare una economia: legislazione del mercato del lavoro, andamento demografico etc.

Il Nawru, è bene ricordarlo, è una grandezza oggetto di diverse controversie teoriche (Stockhammer, 2006; Stirati, 2016) ed è stato oggetto di ripensamento e modificazione, sia teorica che empirica (Ball et al., 2009). Secondo la letteratura tradizionale, essendo un indicatore strutturale, esso non può essere modificato da politiche discrezionali dal lato della domanda, ma può essere influenzato solamente da politiche strutturali, appunto come la modificazione, quasi sempre in senso flessibilista, delle istituzioni che presiedono al mercato del lavoro.

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*Università Roma Tre

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