Se il dibattito pubblico si inquina al punto che due esponenti del movimento ora maggioranza di governo come Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio ritengano di poter definire legittimamente “puttane” e “infimi sciacalli” i giornalisti ritenuti colpevoli di aver “massacrato” mediaticamente Virginia Raggi pur di provocarne le dimissioni, significa che siamo oltre la misura e che qualcosa di grave e forse irreparabile è già accaduto nella precaria democrazia italiana. Queste accuse sono certo irresponsabili perché lasciano intendere che oramai non ci sia più barriera e pudore nella sfera pubblica, nessuna riserva ad utilizzare un lessico così violento nei confronti di coloro che non sono più ritenuti professionisti al servizio dell’informazione ma congiurati, oppositori, scudieri dell’ancien regime.

Basta dire che è ingiustificabile questa posizione? Possiamo respingere, restituendole al mittente, queste accuse e poi basta?

Io penso che ugualmente noi giornalisti dovremmo interrogarci sulla misura con la quale raccontiamo questo tempo nuovo, sulla continenza che dovrebbe consigliarci di usare i social network, l’arma davvero letale che rischia di annientare noi giornalisti più che il potere pubblico.

Twitter, Instagram, Facebook ogni giorno ci spingono verso forme espressive sempre più cruente. Diciamo la nostra e, a mano a mano che scriviamo, la diciamo sempre più netta, più dura, più inappellabile. Cosicché il nostro diritto a manifestare compiutamente il nostro pensiero, perché prima che giornalisti siamo cittadini e godiamo pienamente delle libertà garantite a tutti (e ci mancherebbe!), a volte si sovrappone al nostro compito, quello di informare, e lo infiltra al punto che le opinioni anticipino addirittura i fatti, corrompendoli definitivamente della loro essenza: cosa è successo, dove è successo, per merito o per colpa di chi.

Intendiamoci: io non credo al giornalismo anestetizzato, e del resto scrivo su un giornale che delle sue opinioni fa bandiera quotidiana. Non credo al giornalismo terzo, non credo alla verità oggettiva, non credo al formalismo narrativo, alla ipocrisia linguistica.

Ma ci deve pur essere una terza via, un modo di scrivere che a volte non ci riduca a gazzettieri e a propagandisti, di una parte o dell’altra, non ci imponga, ogni giorno, giudizi feroci e perentori, assoluti sul mondo intero. Perché siamo noi giornalisti a rischiare di più. Dovremmo essere avvertiti sui rischi del giudizio continuo e compulsivo, di come i social trasformino brave persone in belve umane, aristocratici e stimati professori di economia in frange contrapposte e velenose che si combattono a suon di insulti, e persino scienziati in propagandisti della sera, irosi tuttologi del mondo che c’è.

Noi giornalisti dovremmo dire la nostra senza perdere la trebisonda, senza cioè che la nostra opinione, che abbiamo non solo il diritto ma a volte l’obbligo di manifestare, possa legittimare, neppure lontanamente, le terribili e infamanti accuse che oggi muovono nei nostri confronti Di Battista e Di Maio, per restare solo ad oggi e solo a loro due.

Se lo capiamo presto aiuteremo il dibattito pubblico a ripulirsi almeno un po’ da un linguaggio che si fa sempre più tribale, violento, che insozza la democrazia e non aiuta a capire un bel nulla riducendoci alla considerazione di essere tutti servi di qualcuno.

 

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