Da cosa dovrebbe ripartire la sinistra è la domanda un po’ provinciale che sempre ci si pone in Italia a fronte di un evento politico d’oltre confine. Da cosa ripartire dunque dopo le elezioni di Midterm? Proviamo anche noi a rispondere, ma per sprovincializzare. Direi da questo: che non ci interessa se sono state elette due donne musulmane per la prima volta, o se Alexandria Ocasio-Cortez è la più giovane donna mai eletta al Congresso, o ancora se è stata eletta la prima nativa. Noi vogliamo sapere cosa pensano, non in cosa credono e qual è il colore della loro pelle o la loro origine etnica. Riprendendo una riflessione di Fanon a proposito di Margotte Capecia, direi che un nero che guadagna un milione di franchi diventa bianco.

Mi rendo conto dell’importanza dei simboli. Sono perfettamente consapevole che questi risultati sono importantissimi perché rappresentano un messaggio che in politica non può e non deve essere sottovalutato. Si tratta di persone appartenenti a minoranze o a categorie vittime di discriminazione, persone che rappresentano la possibilità di ascesa e di emancipazione politica. La politica vive di un investimento emotivo e simbolico che non può essere liquidato. Così, abbiamo festeggiato Obama per l’elezione della prima persona di colore a presidente degli Stati Uniti. Ma abbiamo fatto in tempo a vederne, a dispetto del Nobel per la Pace conferito anzitempo, i limiti in termini di politica estera, con una continuità rispetto ai predecessori che non molti hanno sottolineato. Dunque i simboli, certo. Ma i simboli non bastano, quando attingono a un serbatoio di senso che è limitato, e che si riferisce ad aspetti che presi da soli rischiano di rimanere del tutto estrinseci.

Prendiamo il caso di Elizabeth Warren, senatrice, accademica, democratica, collaboratrice dell’amministrazione Obama e fiera oppositrice alla nomina presidenziale del giudice della Corte suprema Brett Kavanaugh, probabile candidata dem per il 2020. Ebbene, Warren ha sostenuto di essere di origini native, e Trump la ha malamente insultata sostenendo che questa sua origine fosse un falso, e chiamandola Fake Pocahontas. Per tutta risposta Warren ha prodotto un test del Dna per dimostrare la propria origine. Ora, a parte che si è trattato di un mezzo boomerang, ma poi la domanda è: ma davvero ci interessano questioni legate addirittura al patrimonio genetico delle persone? Certo, negli Stati Uniti queste faccende non sono secondarie, ma il progressismo europeo e italiano vuole davvero continuare a mettersi sulla scia del dibattito sul multiculturalismo e l’integrazione agitando queste questioni? Tanto più che se questo dibattito è stato importato in Italia in assenza dell’ubi consistam, oggi che le questioni dell’integrazione cominciano, per molte ragioni, a far capolino anche da noi, rischia di diventare lo strumento teorico spuntato per affrontarle. Perché le questioni identitarie, anche quando vengono brandite come rivendicazioni politiche progressiste, producono un avvitamento che ci porta a parlare, per l’appunto, del genere, del colore della pelle, del patrimonio genetico, rischiando di farci dimenticare che esse – pur importanti – non possono essere trattate senza che le si guardi assieme alle altre ‘variabili’. Dunque sì al genere, ma assieme alla classe, alla religione, all’etnia, alle preferenze sessuali, etc. Laddove la classe sociale, e più in generale ciò che si pensa del mondo, dell’economia, della diseguaglianza, dello sfruttamento, dell’ecologia, giochino un ruolo fondamentale per farci valutare se una persona merita di rappresentarci oppure no.

Dunque da cosa ripartire? Dal saltare a piè pari le questioni più rozzamente identitarie per parlare il linguaggio di un autentico internazionalismo in cui ciò che conta non sia (solo) il colore della pelle, ma anche le idee che uno ha nella testa. E mi rendo conto del rischio: da destra si dirà “evviva, finalmente qualcuno che la fa finita con le discriminazioni positive, o con il mantra sulle minoranze da proteggere, o sui discriminati che trovano rappresentanza”. Eppure no, occorre non cadere in questo giochetto, occorre riaffermare l’importanza dell’empowerment delle minoranze. Ma occorre altresì guardare oltre, non dando per acquisito il dato dell’emancipazione, ma lavorando per una prospettiva più globale, più aperta, che guardi ai soggetti più deboli e disenfranchised in un’ottica che torni a parlare delle classi sociali e delle diseguaglianze.

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